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La Dea sull’Alto Nuvoláu
di Nicola Dal Falco
di Nicola Dal Falco
Questa è la storia di una caduta, la caduta di un regno. Cose che accadono quando mutano i fati e il tempo affretta la propria corsa circolare.
È un momento confuso, in cui l’accavallarsi di luci e di ombre agita il fondo dello specchio.
La lotta che si apre puntuale e terribile alimenta la speranza, genera imprese, ma è senza riscatto, perché segue la chiusura del ciclo.
Qui, si esaurisce tutta l’energia accumulata, la fede, l’avidità, l’onore, l’astuzia, la purezza e, soprattutto, la conoscenza delle cose sacre.
Manca la possibilità di andare altrove. L’eroe non s’imbarca, resta lungo la riva, confine sempre conteso, e accetta la fine.
La scena iniziale con il cielo che si oscura per il volo della Dea, che ha assunto il suo aspetto di variul, il regale avvoltoio con gli artigli d’oro, corrisponderà a quella finale in cui la regina, privata del regno, esce dal fianco della montagna e compie il giro del lago su una barca. Attende e forse l’attesa è l’unico atteggiamento che può dare senso alla circolarità della vita.
Da una parte, c’è lo sguardo vibrato dall’alto, dall’altra, come inevitabile conseguenza, la fissità del lago, un occhio terreno che cattura solo immagini riflesse.
Tuttavia, per quanto segnati, i destini non sono uguali fra loro: chi sapeva e non dice o chi non vuole sapere è perso due volte e la dea lo trasforma in strumento della fine, in artiglio.
Potremmo anche considerarlo un racconto di nuvole, dove un velo interrompe la visione dei segni celesti, annunciando in questo modo lo scioglimento del patto.
Nulla sarà in grado di opporvisi, dato che tutto è scritto, ma il male che ne deriva è direttamente proporzionale alla somma degli errori.
Resta però il dubbio se il primo sbaglio della regina, il suo accecamento, sia o no un effetto diretto della luce che emana dalla Dea e parte, quindi, di un disegno ab aeterno.
La risposta più coerente è che tra fato e destini esista comunque uno spazio minimo, ampio quanto lo spessore di un capello, dove si gioca la battaglia della vita.
La sua misteriosa offerta consente almeno di scegliere in nome di chi combatterla.
L’alternanza di vittorie e sconfitte scalfisce appena la sincronia dei cicli. A contare sono gli a capo dove, come nel ritmo delle maree, sale o decresce la saggezza degli uomini, in modo che, alla fine, risulti proprio la conoscenza la vera posta in palio.
Da sempre, un’alleanza segreta, nota solo ai re e ai loro congiunti, legava le sorti del regno dei fanes alle marmotte.
Erano loro, radici vive, a stringere uno dei due capi dell’esistenza, gettata come una cima tra passato e presente.
Se questo ruolo fosse venuto meno, il tempo avrebbe ondeggiato pericolosamente, compromettendo la successione degli eventi, lasciando sospesi nel baratro tutto il popolo a iniziare dalle sue guide.
La Dea si era mossa quando la regina, che aveva scelto come marito un principe straniero, non gli rivelò il patto con le marmotte, antenati che le parvero troppo umili per poter soggiogare l’animo dello sposo. Perciò, anziché informarlo, preferì tacere.
Malgrado la gravità del silenzio, vennero celebrate le nozze e per sua volontà lo straniero divenne re dei fanes.
Affidandosi ad un falso orgoglio, privava il marito della principale consacrazione, ne alienava il diritto alla corona, ponendo ogni futura azione in aperto contrasto con l’antico equilibrio. In un certo senso, lo condannava a restare quello che era, uno straniero, spingendolo così, prima a comportarsi come usurpatore e poi a tradire.
Un giorno che il re seguiva un branco di camosci sull’Alto Nuvoláu, trovò in mezzo alla pietraia un piccolo avvoltoio.
Non gli era mai capitato e pensò di prenderlo. Lo aveva messo nel sacco quando si sentì avvolgere da una corrente d’aria.
Girando lo sguardo, fece appena in tempo a proteggersi il viso dal becco della Dea che gli strappò un lembo del mantello.
Aveva lasciato il cavallo più in basso e dovette mettersi a correre, tenendo alto lo scudo. Ogni tanto, quando gli affondi si facevano più vicini, si fermava cercando di colpire
l’uccello con la lancia.
L’avvoltoio, abbassandosi, sputava fiamme, facendo brillare gli artigli d’oro.
Poi, all’improvviso, volò più avanti e raggiunse un masso, proprio all’imbocco del sentiero che scendeva verso valle.
È un momento confuso, in cui l’accavallarsi di luci e di ombre agita il fondo dello specchio.
La lotta che si apre puntuale e terribile alimenta la speranza, genera imprese, ma è senza riscatto, perché segue la chiusura del ciclo.
Qui, si esaurisce tutta l’energia accumulata, la fede, l’avidità, l’onore, l’astuzia, la purezza e, soprattutto, la conoscenza delle cose sacre.
Manca la possibilità di andare altrove. L’eroe non s’imbarca, resta lungo la riva, confine sempre conteso, e accetta la fine.
La scena iniziale con il cielo che si oscura per il volo della Dea, che ha assunto il suo aspetto di variul, il regale avvoltoio con gli artigli d’oro, corrisponderà a quella finale in cui la regina, privata del regno, esce dal fianco della montagna e compie il giro del lago su una barca. Attende e forse l’attesa è l’unico atteggiamento che può dare senso alla circolarità della vita.
Da una parte, c’è lo sguardo vibrato dall’alto, dall’altra, come inevitabile conseguenza, la fissità del lago, un occhio terreno che cattura solo immagini riflesse.
Tuttavia, per quanto segnati, i destini non sono uguali fra loro: chi sapeva e non dice o chi non vuole sapere è perso due volte e la dea lo trasforma in strumento della fine, in artiglio.
Potremmo anche considerarlo un racconto di nuvole, dove un velo interrompe la visione dei segni celesti, annunciando in questo modo lo scioglimento del patto.
Nulla sarà in grado di opporvisi, dato che tutto è scritto, ma il male che ne deriva è direttamente proporzionale alla somma degli errori.
Resta però il dubbio se il primo sbaglio della regina, il suo accecamento, sia o no un effetto diretto della luce che emana dalla Dea e parte, quindi, di un disegno ab aeterno.
La risposta più coerente è che tra fato e destini esista comunque uno spazio minimo, ampio quanto lo spessore di un capello, dove si gioca la battaglia della vita.
La sua misteriosa offerta consente almeno di scegliere in nome di chi combatterla.
L’alternanza di vittorie e sconfitte scalfisce appena la sincronia dei cicli. A contare sono gli a capo dove, come nel ritmo delle maree, sale o decresce la saggezza degli uomini, in modo che, alla fine, risulti proprio la conoscenza la vera posta in palio.
Da sempre, un’alleanza segreta, nota solo ai re e ai loro congiunti, legava le sorti del regno dei fanes alle marmotte.
Erano loro, radici vive, a stringere uno dei due capi dell’esistenza, gettata come una cima tra passato e presente.
Se questo ruolo fosse venuto meno, il tempo avrebbe ondeggiato pericolosamente, compromettendo la successione degli eventi, lasciando sospesi nel baratro tutto il popolo a iniziare dalle sue guide.
La Dea si era mossa quando la regina, che aveva scelto come marito un principe straniero, non gli rivelò il patto con le marmotte, antenati che le parvero troppo umili per poter soggiogare l’animo dello sposo. Perciò, anziché informarlo, preferì tacere.
Malgrado la gravità del silenzio, vennero celebrate le nozze e per sua volontà lo straniero divenne re dei fanes.
Affidandosi ad un falso orgoglio, privava il marito della principale consacrazione, ne alienava il diritto alla corona, ponendo ogni futura azione in aperto contrasto con l’antico equilibrio. In un certo senso, lo condannava a restare quello che era, uno straniero, spingendolo così, prima a comportarsi come usurpatore e poi a tradire.
Un giorno che il re seguiva un branco di camosci sull’Alto Nuvoláu, trovò in mezzo alla pietraia un piccolo avvoltoio.
Non gli era mai capitato e pensò di prenderlo. Lo aveva messo nel sacco quando si sentì avvolgere da una corrente d’aria.
Girando lo sguardo, fece appena in tempo a proteggersi il viso dal becco della Dea che gli strappò un lembo del mantello.
Aveva lasciato il cavallo più in basso e dovette mettersi a correre, tenendo alto lo scudo. Ogni tanto, quando gli affondi si facevano più vicini, si fermava cercando di colpire
l’uccello con la lancia.
L’avvoltoio, abbassandosi, sputava fiamme, facendo brillare gli artigli d’oro.
Poi, all’improvviso, volò più avanti e raggiunse un masso, proprio all’imbocco del sentiero che scendeva verso valle.
Ripiegate le grandi ali, iniziò a parlare: «Vengo dall’isola degli uomini con un braccio, è lì che regno. Libera mio figlio e sarei potente». Il re si limitò a fare un cenno senza rispondere L’avvoltoio non aveva fretta e ripeté la domanda.
Questa volta, si sentì chiaro un sì.
«Allora - rispose l’avvoltoio - sigilleremo il patto con uno scambio».
«Quale scambio»?
«Tra i fanes è consuetudine che chi si allea offre all’altro uno dei gemelli che nascerà».
«Il patto - aggiunse - non deve essere rivelato a nessuno».
«D’accordo, non lo saprà nessuno - disse il re - nemmeno la regina, riprendi pure tuo figlio, se avrò dei gemelli, uno dei due toccherà a te».
«Quale scambio»?
«Tra i fanes è consuetudine che chi si allea offre all’altro uno dei gemelli che nascerà».
«Il patto - aggiunse - non deve essere rivelato a nessuno».
«D’accordo, non lo saprà nessuno - disse il re - nemmeno la regina, riprendi pure tuo figlio, se avrò dei gemelli, uno dei due toccherà a te».
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Tratto da:
Miti Ladini delle Dolomiti
Ey de Net e Dolasíla
di Nicola Dal Falco
con il saggio Raccontare le origini
e le glosse di Ulrike Kindl
foto di Markus Delago
Ey de Net e Dolasíla
di Nicola Dal Falco
con il saggio Raccontare le origini
e le glosse di Ulrike Kindl
foto di Markus Delago
Istitut Ladin Micurà de Rü
www.micura.it
Palombi Editori
www.palombieditori.it
Roma – 2012
pagine 264
15 euro
pagine 264
15 euro
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