Il re non capì subito, perché la figlia avesse gettato la polvere grigia nel lago, glielo aveva annunciato come se fosse una cosa solenne, una cosa giusta da fare.
Cercò, quindi, di controllare il proprio disagio, aspettando che il racconto proseguisse e quando Dolasíla disse a tutti che il lago sarebbe fiorito, la osservò soddisfatto, credendo di vedere in lei un parte di sé.
La semina lo avrebbe reso potente, ma intanto occorreva fare la corazza.
La pelle di marmotta venne tirata e sagomata sul corpo della principessa. Le calzava come la sua stessa pelle.
Da bianca era diventata lattea, quasi trasparente.
In realtà, pareva che Dolasíla camminasse nella luce, rivestita e armata di raggi.
Lo si notava meglio ad una certa distanza e l’effetto finiva per ingraziosirla, pur rendendola estranea.
La forza del bianco, la magia della corazza, leggera e indistruttibile, attirava e confondeva chi la ammirasse.
Il lavoro proseguì con il vaso che, messo sul crogiolo, dette abbastanza argento per forgiare un arco scattante, capace di flettersi al minimo tocco, mentre le gocce cadute sopra la pietra più venivano raschiate e più parevano spesse.
Alla fine, con la sola limatura furono fatte le trombe per l’esercito. Il loro suono non aveva paragoni, spandendosi come l’azzurro.
Passarono i giorni e a luna gonfiò l’intero profilo, tornando immensa e soccorrevole, lassù pura come pietra, quaggiù insinuante, serpentina, a sillabare tra i rami e sull’acqua. Dal cielo si rovesciava un fiume intatto che scorrendo in vortici silenziosi, levigava e colmava le asperità del mondo.
Un occhio potente, senza ciglia, ne fissava i contorni e la nera materia, soppesando per ogni cosa necessità e azzardo.
Il re vide che era tempo di recarsi in riva al lago, dove l’accolse una musica fine.
Il lago nascondeva le sponde sotto un siepe di canne d’argento che, muovendosi alla brezza del mattino, ritmavano un suono di sistri: quel suono imprecisabile dello strumento che ha la forma della Dea e un’anima metallica.
Al centro dello specchio d’acqua, si era come rotto il guscio e la superficie vibrava di fiori simili a gemme, a ghirlande di onice e diaspro, d’ambra e calcedonio… tutti i frutti che la terra serra in grembo galleggiavano ai primi raggi di sole.
Il re si affrettò a far tagliare le canne, offrendo all’arco di Dolasíla le migliori frecce possibili.
Bastava, infatti, incoccarle e tendere il filo, perché queste colpissero qualsiasi bersaglio, anche senza mirare, attraversando da parte a parte tronchi e rocce.
Ora, la principessa era pronta per la guerra.
Cercò, quindi, di controllare il proprio disagio, aspettando che il racconto proseguisse e quando Dolasíla disse a tutti che il lago sarebbe fiorito, la osservò soddisfatto, credendo di vedere in lei un parte di sé.
La semina lo avrebbe reso potente, ma intanto occorreva fare la corazza.
La pelle di marmotta venne tirata e sagomata sul corpo della principessa. Le calzava come la sua stessa pelle.
Da bianca era diventata lattea, quasi trasparente.
In realtà, pareva che Dolasíla camminasse nella luce, rivestita e armata di raggi.
Lo si notava meglio ad una certa distanza e l’effetto finiva per ingraziosirla, pur rendendola estranea.
La forza del bianco, la magia della corazza, leggera e indistruttibile, attirava e confondeva chi la ammirasse.
Il lavoro proseguì con il vaso che, messo sul crogiolo, dette abbastanza argento per forgiare un arco scattante, capace di flettersi al minimo tocco, mentre le gocce cadute sopra la pietra più venivano raschiate e più parevano spesse.
Alla fine, con la sola limatura furono fatte le trombe per l’esercito. Il loro suono non aveva paragoni, spandendosi come l’azzurro.
Passarono i giorni e a luna gonfiò l’intero profilo, tornando immensa e soccorrevole, lassù pura come pietra, quaggiù insinuante, serpentina, a sillabare tra i rami e sull’acqua. Dal cielo si rovesciava un fiume intatto che scorrendo in vortici silenziosi, levigava e colmava le asperità del mondo.
Un occhio potente, senza ciglia, ne fissava i contorni e la nera materia, soppesando per ogni cosa necessità e azzardo.
Il re vide che era tempo di recarsi in riva al lago, dove l’accolse una musica fine.
Il lago nascondeva le sponde sotto un siepe di canne d’argento che, muovendosi alla brezza del mattino, ritmavano un suono di sistri: quel suono imprecisabile dello strumento che ha la forma della Dea e un’anima metallica.
Al centro dello specchio d’acqua, si era come rotto il guscio e la superficie vibrava di fiori simili a gemme, a ghirlande di onice e diaspro, d’ambra e calcedonio… tutti i frutti che la terra serra in grembo galleggiavano ai primi raggi di sole.
Il re si affrettò a far tagliare le canne, offrendo all’arco di Dolasíla le migliori frecce possibili.
Bastava, infatti, incoccarle e tendere il filo, perché queste colpissero qualsiasi bersaglio, anche senza mirare, attraversando da parte a parte tronchi e rocce.
Ora, la principessa era pronta per la guerra.
Link to L’Istituto Ladino "Micurà de Rü"
Tratto da Miti Ladini delle Dolomiti
Ey de Net e Dolasíla
di Nicola Dal Falco
con il saggio Raccontare
le origini e le glosse
di Ulrike Kindl
Palombi Editori
2012 Roma
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