mattina incerta
2011
(12x17 cm)
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2011
(12x17 cm)
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PROSAICA
da Storia Romana
(Libri XXXIX – XLIII)
di Dione Cassio
da Storia Romana
(Libri XXXIX – XLIII)
di Dione Cassio
La notte di Cassio
Nella notte, scrosciante di grilli, svaniscono i bordi. Si muove il bosco, sfiorando le costellazioni mentre il cielo sbiancato di stelle disegna un’ombra iridescente.
Tutto, per lunghi attimi, appare pieno di senso e privo di segni.
Nulla emerge a indicare una direzione, ma permane nel proprio respiro.
Così prossima al nulla è la pienezza ora che lo spazio e il tempo rifluiscono l’uno nell’altro e la visione si fa, miracolosamente, luogo, togliendo a quest’ultimo ogni infima determinazione.
Ti accorgi di come sia fisico l’abbandono e concreta la devozione per una tale incalcolabile ebbrezza.
Porte spalancate i sensi di cui la ragione custodisce le chiavi, abbandonate in fondo al cuore.
All’opposto sta il mondo carico di segni, percepito come spettacolo: inizio e fine ripetuti, cercati.
Del tempo, padrone d’effetti, si plasma la statua di cera, affidata al fuoco, sciolta e di nuovo raccolta.
Il tempo è vizio da storici, passione oracolare, poesia e fuori dalla Notte, dea luminosa, nient’altro che un fiume a cui si chiede il passaggio: «ci furono momenti – scrisse Dione Cassio - in cui anche gli uccelli ritardarono le elezioni dei magistrati, mostrandosi contrari alla procedura degli interré».
«Così dunque finì anche questa guerra»
meraviglia degli avverbi: l’ariosa mestizia del dunque e dell’anche, toglie ardore al categorico inizio della frase; il modo con cui si concludono le guerre sparge di freschi polloni il campo del prossimo, inevitabile scontro
«vedendo i Romani intenti a tagliare legni e a costruire le macchine, ridevano»
riso più pesante del piombo, nato di pancia,
che dura finché dura il nodo;
un riso senza bordi, né luce,
protratto in faccia all’ignoto;
ridere di non sapere, ridere dell’immagine,
di ciò che sarà
«allora partì per Efeso e lì visse presso il tempio della dea»
senza più regno, non rimane che la vicinanza del bosco,
il lento oblio ai piedi della sposa del mondo
«in città era stato visto e catturato un gufo,
quartieri tornati selve, resi notte
«una statua aveva emesso sudore per tre giorni,
può un dio avvertire la fatica del vivere?
«una luce aveva solcato il cielo da mezzogiorno a oriente
invertendo il moto
«e molti fulmini e zolle di terra e pietre e cocci e sangue erano volati per l’aria»
come soffocati da un’aria, divenuta improvvisamente vischiosa e tagliente; tra due effetti teatrali – fulmini e sangue – il più allarmante e orrifico sono i cocci che volano, pari ad un sordida rivolta d’oggetti
«e, sceso dalle nave, delle serpi lo avevano seguito scompigliando le sue orme»
Vicino ad un fiume – Ana è il suo nome – di là dal mare Ionio, in Epiro, scaturisce una sorgente di fuoco. Lì, la terra non s’imbeve d’acque, ma di fiamme, restando verde e rigogliosa.
Segno divino che il fuoco lasci l’aria tremante senza bruciare erba ed alberi attorno, e che quando piove
anziché affievolire s’innalzi con maggiore vigore, riconoscendo così la potestà di Giove.
Anche le parole fluiscono dal ventre come un soffio rovente, ma senza ustioni per chi le pronuncia, attratte fuori e risucchiate in cielo verso il sole e gli altri astri.
Perciò quella sorgente, simile ad altre fonti, è sempre pronta a parlare.
Chi vi si reca per chiedere voti getta incenso tra le sue labbra.
Se il responso è favorevole il fuoco brucia l’offerta, ed anche quella che, per avventura, cada distante la insegue e l’inghiotte.
Altrimenti, si ritrae, e resta, per così dire, muta.
Fiume e sorgente si trovano a poca distanza da Apollonia Corinzia.
Solo due argomenti restano esclusi: il matrimonio e la morte. Quel fuoco non tratta i piccoli incendi.
Tutto, per lunghi attimi, appare pieno di senso e privo di segni.
Nulla emerge a indicare una direzione, ma permane nel proprio respiro.
Così prossima al nulla è la pienezza ora che lo spazio e il tempo rifluiscono l’uno nell’altro e la visione si fa, miracolosamente, luogo, togliendo a quest’ultimo ogni infima determinazione.
Ti accorgi di come sia fisico l’abbandono e concreta la devozione per una tale incalcolabile ebbrezza.
Porte spalancate i sensi di cui la ragione custodisce le chiavi, abbandonate in fondo al cuore.
All’opposto sta il mondo carico di segni, percepito come spettacolo: inizio e fine ripetuti, cercati.
Del tempo, padrone d’effetti, si plasma la statua di cera, affidata al fuoco, sciolta e di nuovo raccolta.
Il tempo è vizio da storici, passione oracolare, poesia e fuori dalla Notte, dea luminosa, nient’altro che un fiume a cui si chiede il passaggio: «ci furono momenti – scrisse Dione Cassio - in cui anche gli uccelli ritardarono le elezioni dei magistrati, mostrandosi contrari alla procedura degli interré».
«Così dunque finì anche questa guerra»
meraviglia degli avverbi: l’ariosa mestizia del dunque e dell’anche, toglie ardore al categorico inizio della frase; il modo con cui si concludono le guerre sparge di freschi polloni il campo del prossimo, inevitabile scontro
«vedendo i Romani intenti a tagliare legni e a costruire le macchine, ridevano»
riso più pesante del piombo, nato di pancia,
che dura finché dura il nodo;
un riso senza bordi, né luce,
protratto in faccia all’ignoto;
ridere di non sapere, ridere dell’immagine,
di ciò che sarà
«allora partì per Efeso e lì visse presso il tempio della dea»
senza più regno, non rimane che la vicinanza del bosco,
il lento oblio ai piedi della sposa del mondo
«in città era stato visto e catturato un gufo,
quartieri tornati selve, resi notte
«una statua aveva emesso sudore per tre giorni,
può un dio avvertire la fatica del vivere?
«una luce aveva solcato il cielo da mezzogiorno a oriente
invertendo il moto
«e molti fulmini e zolle di terra e pietre e cocci e sangue erano volati per l’aria»
come soffocati da un’aria, divenuta improvvisamente vischiosa e tagliente; tra due effetti teatrali – fulmini e sangue – il più allarmante e orrifico sono i cocci che volano, pari ad un sordida rivolta d’oggetti
«e, sceso dalle nave, delle serpi lo avevano seguito scompigliando le sue orme»
lasciò per terra lo stesso,
inconcludente, solco
che aveva tracciato in mare;
onde lo inseguivano
fin dentro il porto
Di là dal mare
inconcludente, solco
che aveva tracciato in mare;
onde lo inseguivano
fin dentro il porto
Di là dal mare
Vicino ad un fiume – Ana è il suo nome – di là dal mare Ionio, in Epiro, scaturisce una sorgente di fuoco. Lì, la terra non s’imbeve d’acque, ma di fiamme, restando verde e rigogliosa.
Segno divino che il fuoco lasci l’aria tremante senza bruciare erba ed alberi attorno, e che quando piove
anziché affievolire s’innalzi con maggiore vigore, riconoscendo così la potestà di Giove.
Anche le parole fluiscono dal ventre come un soffio rovente, ma senza ustioni per chi le pronuncia, attratte fuori e risucchiate in cielo verso il sole e gli altri astri.
Perciò quella sorgente, simile ad altre fonti, è sempre pronta a parlare.
Chi vi si reca per chiedere voti getta incenso tra le sue labbra.
Se il responso è favorevole il fuoco brucia l’offerta, ed anche quella che, per avventura, cada distante la insegue e l’inghiotte.
Altrimenti, si ritrae, e resta, per così dire, muta.
Fiume e sorgente si trovano a poca distanza da Apollonia Corinzia.
Solo due argomenti restano esclusi: il matrimonio e la morte. Quel fuoco non tratta i piccoli incendi.
Nicola Dal Falco
11 agosto 2011
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11 agosto 2011
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