mercredi 22 juin 2011

Santo Trovato : “Per meglio comprendere la cesura unitaria”

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Non c’era alcun bisogno che arrivasse Garibaldi per insegnarci la libertà, sapevamo difenderla per antiche virtù, l’avevamo difesa in cento passaggi della storia…

“Per meglio comprendere la cesura unitaria”

Al Regno Sardopiemontese mancava un “casus belli” presentabile per aggredire il Regno delle Due Sicilie, e Cavour voleva sempre accreditarsi come strumento del ripristino dell’ordine. L’unica chance poteva essere costituita da una sollevazione interna, che provasse la disaffezione delle popolazioni rispetto al regime assolutista che governava Napoli e la Sicilia. Che dimostrasse, soprattutto, l’incapacità del Borbone di garantire, in forme accettabili, l’ordine pubblico nei propri territori.

Di opposizione interna nel Regno se ne era vista davvero molta: in appena sessant’anni i Borbone avevano dovuto schiacciare la Repubblica Partenopea del 1799, i moti rivoluzionari del 1820-21, la secessione siciliana del 1848-49, il movimento costituzionale napoletano del 1848. Per ben due volte, inoltre, i Borbone erano stati rimessi sul trono da una invasione militare austriaca che aveva piegato gli eserciti popolari insurrezionali.

Tuttavia, nel 1860, la situazione risultava più favorevole ai Borbone: sin dal 1821 l’esercito era stato epurato dagli elementi liberali, riempito di mercenari austriaci svizzeri e bavaresi, e ad esso era dedicata costante attenzione economica da parte dei regnanti. Nel complesso l’esercito appariva sicuramente fedele alla casa regnante.

Il 4 aprile 1860 si accese un’ennesima fiamma, quando il tentativo a Palermo di Francesco Riso, subito represso, diede il via ad una serie di agitazioni, tra cui la famosa marcia da Messina a Piana dei Greci, fra il 10 ed il 20 aprile 1860, di Rosolino Pilo. A chi incontrava per via annunciava di tenersi pronti … «verrà Garibaldi». Il 2 marzo, un mese prima, Mazzini aveva scritto in una lettera ai Siciliani: «Garibaldi è vincolato ad accorrere».

In questo particolare contesto si inserì, dunque, la donchisciottesca spedizione di Garibaldi e dei suoi Mille (come la definisce lo storico Mack Smith in “Cavour e Garibaldi nel 1860”), finanziata dal governo inglese con una cassa di piastre d’oro turche (moneta franca nel Mediterraneo del tempo) pari a molti milioni degli attuali dollari. Dietro “l’impresa” emergeva, però, il disegno della Massoneria inglese, volto a controbilanciare l’egemonia francese nel mediterraneo.

Infatti, la mattina dell’11 maggio, le navi militari inglesi, “casualmente” alla fonda in Marsala, con uno stratagemma protessero lo sbarco dei “Mille”, e le due navi piemontesi furono scorte con “ritardo” dalle marina borbonica. Erano in servizio in quelle acque la pirocorvetta Stromboli, il brigantino Valoroso, la fregata a vela Partenope (comandata dal traditore, capitano Guglielmo Acton) ed il vapore armato Capri. Avvistarono i garibaldini la Stromboli e il Capri. Il comandante di quest’ultimo, il capitano Marino Caracciolo, volutamente, senza intervenire, aspettò le evoluzioni delle cannoniere inglesi Argus (capitano Winnington-Inghram) e Intrepid (capitano Marryat), che erano in quel porto proprio per proteggere i garibaldini.

Solo dopo due ore il Lombardo, ormai vuoto, fu affondato a cannonate, mentre il Piemonte, arenato per permettere più velocemente lo sbarco, venne catturato e rimorchiato inutilmente a Napoli. A Marsala parte della popolazione si chiuse in casa, altri fuggirono nelle campagne. I garibaldini, accolti festosamente solo dagli inglesi si accamparono nei pressi della città praticamente vuota, mentre Garibaldi, temendo la reazione popolare si rifugiò con altri nella vicina isola di Mozia.

Il governo borbonico, tramite il ministro affari esteri Luigi Carafa di Traetto, il 12 maggio protestò a Torino contro quell’inqualificabile atto di pirateria sostenuto dai Savoia. Cavour si affrettò a dichiarre sulla Gazzetta Ufficiale che il suo governo era del tutto estraneo alle azioni dei «filibustieri garibaldini». Intanto, in tutto il Piemonte, con l’appoggio proprio del governo sabaudo, erano state attivate le società operaie di mutuo soccorso, le dame della Torino bene e altre logge per raccogliere fondi per “l’eroica impresa garibaldina”.

Il 13 maggio Garibaldi, entrato in Salemi, dove il barone Sant’Anna aveva affiancato i suoi “picciotti” all’orda garibaldina, si proclamò dittatore della Sicilia. Nel frattempo il governatore Castelcicala spingeva all’azione le forze duosiciliane, comandate dal generale Francesco Landi. Costui, con circa tremila uomini ai suoi ordini, inviò da Alcamo il 14 un solo battaglione verso Calatafimi, con l’ordine di non attaccare il nemico e, se attaccato, di ritirarsi. Il maggiore Sforza, comandante dell’8° Cacciatori, con sole quattro compagnie, incontrò il 15 i garibaldini e non poté fare a meno di assalirli. Quest’ultimi ebbero trenta morti, vennero sgominati e tentarono di rifugiarsi sulle colline, ove furono inseguiti dallo Sforza. Inspiegabilmente, il generale Landi, invece di inviare altre forze per il completamento del successo, ordinò la ritirata senza neanche avvisare lo Sforza. Ne seguì un caos indescrivibile, poiché la truppa non riusciva a capire il motivo del ripiegamento. Il giorno 17 il Landi, dopo aver fatto fare inutili giri alle sue truppe, si ritirò senza nessun motivo in Palermo. Garibaldi, rinforzate le sue bande con tremila e cinquecento uomini raccolti fra la delinquenza siciliana, nella notte tra il 26 ed il 27 maggio assalì Palermo attraverso porta Sant’Antonino, prevalendo facilmente sulle poche truppe borboniche.

Ad Alcara Li Fusi i sovversivi scatenarono una violenta rivolta, durante la quale furono depredati ed assassinati molti civili. Garibaldi, per scopi demagogici e per calmare la situazione, decretò l’abolizione della tassa sul macinato e sui dazi. Il comportamento del Landi fu comprensibilissimo, quando si scoprì che aveva ricevuto dagli emissari carbonari una fede di credito di quattordicimila ducati d’oro come prezzo del suo tradimento (Landi, nato a Napoli il 10 ottobre 1792, morì di crepacuore il 2 febbraio 1861, nel momento in cui si accorse che il titolo era falso e valeva solo 14 ducati).

L’atto di annessione della Sicilia al Regno Sardopiemontese di Vittorio Emanuele II nel 1860, come dimostra anche il Mack Smith, non fu chiara e libera manifestazione plebiscitaria della volontà dei Siciliani, ma un vero e proprio atto di forza. Garibaldi confessò a varie riprese che il popolo fu sempre assente nel «movimento per l’unificazione italiana”, quando non fu decisamente contrario. Lo stesso Mazzini, rispondendo con uno scritto alla circolare 15 agosto1860 del ministro Domenico Farini, nella quale si rivelava la decisione del governo piemontese per l’annessione, spinse verso quell’atto, proprio perché temeva le pesanti riserve dei Siciliani e intendeva tagliar corto all’idea più sana di una Confederazione Italiana, propugnata dal Gioberti e da diversi patrioti siciliani tra il 1848 e il 1860. La stessa relazione del Consiglio Straordinario di Stato – istituito in Sicilia dal prodittatore Antonio Mordini con decreto 19 ottobre 1860 e con il quale, ad annessione avvenuta, i rappresentanti del Popolo Siciliano avrebbero dovuto discutere e proporre gli ordinamenti più convenienti alla Sicilia per entrare a far parte dello Stato Italiano –, non ebbe mai seguito.

Tutto – come ben sappiamo dalla lettura dell’art. 4 del “decreto prodittatoriale 9 ottobre 1860”, con il quale si stabilì l’infame sistema di votazione per il plebiscito –, si svolse in un’atmosfera di vera e propria sopraffazione della libera volontà dei Siciliani. I risultati di quel plebiscito registrarono soltanto 667 “no” su 432.720 votanti, con una percentuale che supera il 99,99% dei cosiddetti “si”.

Lo stesso ministro Henry Elliot, ambasciatore inglese a Napoli, nel rapporto al suo Governo scrisse testualmente: «Moltissimi vogliono l’autonomia, nessuno l’annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa». E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, così concepito: «I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore». Con una buona dose di ipocrisia.

Entrata così a far parte del regno savoiardo, la Sicilia fu spogliata, nel giro di pochi anni, dell’ingente patrimonio di quei Beni Ecclesiastici (che fruttarono allo Stato 700 milioni del tempo), della riserva d’oro e d’argento del Banco di Sicilia, e vide portato il carico tributario a cinque volte di più del precedente. Si inasprirono, inoltre, i pesi sui consumi, sugli affari, sulle dogane, le tasse di successione che prima non esistevano, quelle del Registro che erano state fisse, quelle di bollo, per cui nel 1877 queste imposte erano già pervenute a 7 milioni e nel 1889-90 avevano raggiunto i 20 milioni.

La vendita del patrimonio dello Stato – ossia del demanio siciliano – accresciuto dai beni dei soppressi Enti Religiosi e sommato alla vendita delle ferrovie, fruttò al Regno d’Italia oltre un miliardo dell’epoca, senza contare il capitale dei mobili, delle argenterie e tutta la rendita del debito pubblico, posseduta dalle Corporazioni religiose, che venne cancellata del tutto. E non erano “beni della Chiesa di Roma”, ma frutto di donazioni di famiglie siciliane.

Le terre demaniali che Garibaldi aveva promesso ai contadini ed ai “picciotti” il 2 giugno 1860, con il decreto concernente la divisione dei demani comunali, andarono soltanto ad impinguare i patrimoni dei nobili e dei borghesi, per cui già nel giugno e nel luglio del 1860 si ebbero in Sicilia quelle sollevazioni che assunsero proporzioni vastissime, poiché i contadini rivendicavano non solo la quotizzazione dei demani ancora indivisi, ma anche la nuova quotizzazione dei demani usurpati o illegalmente acquistati da nobili o borghesi, oppure il ristabilimento su di essi dei vecchi diritti d’uso.

Risultato di quelle richieste legittime furono le feroci repressioni eseguite da Bixio a Bronte, e dalle milizie garibaldine a Caltavuturo, a Modica, e in tanti altri comuni.

Verso la fine di giugno e nel corso del luglio 1860 la frattura tra governo garibaldino e movimento contadino si venne via via accentuando, non solo per la resistenza popolare alla coscrizione (resa obbligatoria da Garibaldi con il decreto del 14 maggio) ma anche perché le autorità governative e le forze armate garibaldine furono portate sempre più a schierarsi a favore dei ceti dominanti. A distanza di 150 anni non rimane alcun dubbio: fu vera gloria?

No, fu solo un falso storico d’autore!


Santo Trovato



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1 commentaire:

Alan BROC a dit…

Li Sicilians devou à Garibaldi lou servìci militàri e diversos taussos.

Agaro coumprendi perqué i o inquèro de tenents di Duoi Sicìlios que venguèrou debouta lou Savoio quand venguè à Bari fai quauques ons.