Il formaggio e i vermi
Passata la guerra, nel Cinquanta, venne rifatto il tetto della villa. Durante i lavori, tutti si distraevano a guardare il cielo dal lungo occhio del primo piano. Vi salivano apposta. Erano diventati, come direbbe Vico, un po’ ciclopi. L’improvvisa profondità del cielo li lasciava perplessi. L’azzurro sembrava in grado di disfare lentamente la villa.
Cercando di mettere ordine, la padrona di casa, presa in mille incombenze, infilò una forma di taleggio nel cassetto del comò. Per qualche giorno, fece caldo, sembrò sul punto di piovere, tornò il sereno, si riannuvolò.
Il nuovo tetto era quasi pronto. Al posto dei coppi furono messe delle tegole piatte, d’importazione, che il vento poteva alzare solo con le unghie. Mentre veniva chiuso l’ultimo spiraglio, un odore pungente e strisciante invase le scale e il corridoio.
Era un miscuglio di vernice e di terra: un che di chimico per la violenza con cui aggrediva naso e gola e di definitivo per come appesantiva l’aria. Lanciando un grido, la signora ricordò tutto e corse al cassetto.
La forma squadrata di Taleggio si era sgonfiata, dividendosi in tre o quattro rivoli grassi. Faceva pensare al profilo della Spagna, saldata alla punta del Marocco e, attraverso un filo mobile, alle Baleari. Distretti e città erano indicati con macchie verdi e blu mentre una fitta lanugine copriva le parti in rilievo.
Lo stupore della signora si concentrava su quel ponte vivo, gettato tra la costa e l’arcipelago, più o meno all’altezza di Barcellona.
Erano vermi, lunghi, contorti, di un pallore quasi trasparente; sembravano tenersi per mano e guidarsi a vicenda verso un tocco distante di polpa.
Sarebbero finiti, immediatamente, sotto il rubinetto, se gli operari, scesi dal tetto, non avessero reclamato una fetta di quel mondo che si disfa dando alla luce i suoi figli. Presero, quindi, il cassetto e sedutisi intorno, cominciarono a pucciarci dentro il pane.
Cercando di mettere ordine, la padrona di casa, presa in mille incombenze, infilò una forma di taleggio nel cassetto del comò. Per qualche giorno, fece caldo, sembrò sul punto di piovere, tornò il sereno, si riannuvolò.
Il nuovo tetto era quasi pronto. Al posto dei coppi furono messe delle tegole piatte, d’importazione, che il vento poteva alzare solo con le unghie. Mentre veniva chiuso l’ultimo spiraglio, un odore pungente e strisciante invase le scale e il corridoio.
Era un miscuglio di vernice e di terra: un che di chimico per la violenza con cui aggrediva naso e gola e di definitivo per come appesantiva l’aria. Lanciando un grido, la signora ricordò tutto e corse al cassetto.
La forma squadrata di Taleggio si era sgonfiata, dividendosi in tre o quattro rivoli grassi. Faceva pensare al profilo della Spagna, saldata alla punta del Marocco e, attraverso un filo mobile, alle Baleari. Distretti e città erano indicati con macchie verdi e blu mentre una fitta lanugine copriva le parti in rilievo.
Lo stupore della signora si concentrava su quel ponte vivo, gettato tra la costa e l’arcipelago, più o meno all’altezza di Barcellona.
Erano vermi, lunghi, contorti, di un pallore quasi trasparente; sembravano tenersi per mano e guidarsi a vicenda verso un tocco distante di polpa.
Sarebbero finiti, immediatamente, sotto il rubinetto, se gli operari, scesi dal tetto, non avessero reclamato una fetta di quel mondo che si disfa dando alla luce i suoi figli. Presero, quindi, il cassetto e sedutisi intorno, cominciarono a pucciarci dentro il pane.
Nicola Dal Falco
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