Un giorno, nel deserto,
tra l’acqua e il latte, spuntò il tè
di Nicola Dal Falco
Il Sahara è un mare interno che unisce la riva del Mediterraneo al Paese dei Neri. Sembrerebbe una definizione favolosa ed è invece la più semplice. Quando pensiamo al deserto dovremmo, per prima cosa, liberarci dei tre aggettivi vuoto, monotono e morto. Sono aggettivi facili, sentiti migliaia di volte e quindi potenzialmente sbagliati. Il deserto non è vuoto, monotono, morto; può essere queste tre cose ma non sempre, anzi quasi mai. Assomiglia ad un mare perchè è costellato di isole (le oasi) e lo si può attraversare in lungo e in largo, seguendo precise rotte.
Un tempo, ragionevolmente vicino, diecimila anni fa , come dimostrano le incisioni rupestri, era addirittura verde, percorso da fiumi e da mandrie al pascolo. A mano a mano che il clima si riscaldava (tra il 4.000 e il 1.000 a.C.), la cultura del bue e del miglio cedette il passo a quella del cavallo e del carro e poi, quando tutto fu compiuto e lasciato in potere del vento, per ultimi arrivarono il dromedario e il dattero. Un cerchio si era chiuso.
Per viaggiare attraverso il deserto mancava però ancora qualcosa capace di addolcire la vita del nomade assecondando le chiacchiere intorno al fuoco. Questo qualcosa era il tè e fece la sua comparsa circa un secolo fa; dapprima quasi snobbato e poi elevato a rito.
Furono gli occidentali a farlo conoscere ma così com'era, leggero, diafano, simile alle tazzine di porcellana in cui veniva versato, pareva quasi offensivo, fuori luogo, a metà strada tra l'acqua, bene prezioso, benedetto e il latte di cammella, denso e nutriente. La soluzione stava nella quantità: bastò sostituire un pizzico con una manciata di tè, qualche cucchiaino con un bel pugno generoso per conquistare la costa dilagando nel deserto. Carico di teina, sciropposo, sposato alla menta, sfruttato a fondo (fino a quattro infusioni) divenne la bevanda dei conviti sotto la tenda e le stelle.
Una teiera smaltata
Quante volte, durante una sosta, sono sceso girando intorno alla jeep per sgranchirmi le gambe che già qualcuno degli autisti, mai il vecchio né il più giovane, aveva riempito e posato la teiera sui rametti accesi, trasformati in un attimo in braci. Sopra il fuoco che forma una macchia vivida nella sabbia, la piccola teiera smaltata, blu, verde o rossa, a volte decorata con dei fiorellini, borbottava calmando gli sguardi.
Da una cassettina rettangolare di legno erano usciti una piccola piramide di zucchero, il martelletto di rame per frantumarlo e sei bicchieri, alti una spanna, di vetro opaco, resistente; così spessi da tenere a lungo tutto il calore della bibita color ambra.
Una gavetta o un bicchiere più grande, tenuto lì accanto, sarebbe servito ad ossigenare il tè. L'operazione di travaso, eseguita con abilità e senso teatrale, richiede un ampio movimento dell'avambraccio, dal basso verso l'alto e viceversa.
Generalmente viene usato del tè cinese in palline, il cosiddetto gunpowder, polvere da sparo, per lo stesso motivo per cui è più comodo portarsi dietro dello zucchero in pani o in zollette. Appena immersa nell'acqua, la fogliolina accartocciata su se stessa, si distende, riacquista un'effimera vitalità.
Dopo aver travasato più volte il liquido, l'uomo seduto sui talloni inizia l'assaggio. In base alla suscettibilità o importanza dei presenti prova e riprova, aggiungendo zucchero e tè mentre viene messa sul fuoco un'altra teiera.
Quando si ritiene soddisfatto, riempie i bicchieri centrandoli dall'alto in rapida successione. Poi, senza una parola, li distribuisce.
Metafisica sociale
È a questo punto che il tè nel deserto si trasforma in una metafisica dei rapporti sociali. I bicchieri non possono essere più di tre. Se accetti il primo, il più forte, devi sorbire anche il secondo e il terzo. Rifiutarli è una prova di maleducazione.
Per gli stomaci delicati, l'unica via d'uscita è di limitarsi al terzo, eventualità prevista ed accettata. Il quarto, privo di teina, viene dato ai bambini, ma se è offerto a degli ospiti, seguito magari da un quinto, il significato è lampante: quella compagnia non è più gradita. Misteriosamente ma non troppo, il bicchiere dei saluti inderogabili si chiama fantasia.
Il tè del deserto scioglie le lingue, riscalda e corrobora; preso in dosi massicce provoca anche una certa ebbrezza.
In arabo si dice chai, in tamahaq, la lingua dei tuareg, atai ma nell'intimità del bivacco, superata l'iniziale diffidenza, gli ospiti lo indicano come «c'est mon alcol». Quando si mette piede nel deserto, il rumore del silenzio e del vento creano come un muro dietro cui ci si rifugia volentieri. Tra le prime reazioni di un europeo nel Sahara, un meditato mutismo è quella che gli fa più onore. La vastità della scena impone un'economia generale nei gesti e nelle parole. La voce interiore comincia a coprire il baccano esterno a cui si era abituati.
Tuttavia non bisogna esagerare e c'è almeno un'occasione in cui il silenzio potrebbe creare un equivoco.
Il tè si beve bollente, le labbra a beccuccio sull'orlo del bicchiere; le nostre buone creanze impongono brevi sorsate anonime, quasi di nascosto che il calore trasforma comunque in smorfie. Loro, invece, bevono tirando su, con la stessa voluttà del dromedario.
Fare rumore insomma è indice di apprezzamento, una cacofonia attentamente valutata.
Durante il viaggio, il cerimoniale del tè viene abbreviato, in casa invece non dura meno di un'ora e mezza; viene servito dai bambini nel cortile come aperitivo o dopo la cena.
Il tuo nome è colui che cammina
Alla fine di questa breve cronaca è il momento di dire la cosa più importante: non si può raccontare cos'è il tè nel deserto senza parlare dell'ospitalità nomade. Tutte e tre le religioni del libro, ebraismo, cristianesimo e islamismo hanno origine nel deserto, comune fonte d'ispirazione. C'è uno scrittore, Edmond Jabès, che ne ha parlato a lungo. Le sue parole sono limpide.
«Ti benedico ospite mio invitato - dice il santo rabbino - poiché il tuo nome è Colui che cammina. Il cammino è nel tuo nome. L'ospitalità è crocevia di cammini».
«Due certezze si contendono il deserto: una d'acqua, l'altra di polvere» in mezzo, si potrebbe dire, il tè. E ancora e meglio: «al di qua della responsabilità c'è la solidarietà, al di là c'è l'ospitalità».
Sempre un saggio: «dimentica chi sei, perchè in virtù di questo iniziale oblio tu sarai mio ospite».
Per concludere valga l'esempio di quel beduino che salvò due turisti nel Sinai e quando questi tornarono per salutarlo fece finta di non conoscerli. Li accolse come la prima volta, offrendo quello che aveva e solo al momento di separarsi nuovamente si spiegò: «se vi avessi riconosciuto, se avessi manifestato la mia gioia, il mio poteva sembrare un gesto interessato».
Un tempo, ragionevolmente vicino, diecimila anni fa , come dimostrano le incisioni rupestri, era addirittura verde, percorso da fiumi e da mandrie al pascolo. A mano a mano che il clima si riscaldava (tra il 4.000 e il 1.000 a.C.), la cultura del bue e del miglio cedette il passo a quella del cavallo e del carro e poi, quando tutto fu compiuto e lasciato in potere del vento, per ultimi arrivarono il dromedario e il dattero. Un cerchio si era chiuso.
Per viaggiare attraverso il deserto mancava però ancora qualcosa capace di addolcire la vita del nomade assecondando le chiacchiere intorno al fuoco. Questo qualcosa era il tè e fece la sua comparsa circa un secolo fa; dapprima quasi snobbato e poi elevato a rito.
Furono gli occidentali a farlo conoscere ma così com'era, leggero, diafano, simile alle tazzine di porcellana in cui veniva versato, pareva quasi offensivo, fuori luogo, a metà strada tra l'acqua, bene prezioso, benedetto e il latte di cammella, denso e nutriente. La soluzione stava nella quantità: bastò sostituire un pizzico con una manciata di tè, qualche cucchiaino con un bel pugno generoso per conquistare la costa dilagando nel deserto. Carico di teina, sciropposo, sposato alla menta, sfruttato a fondo (fino a quattro infusioni) divenne la bevanda dei conviti sotto la tenda e le stelle.
Una teiera smaltata
Quante volte, durante una sosta, sono sceso girando intorno alla jeep per sgranchirmi le gambe che già qualcuno degli autisti, mai il vecchio né il più giovane, aveva riempito e posato la teiera sui rametti accesi, trasformati in un attimo in braci. Sopra il fuoco che forma una macchia vivida nella sabbia, la piccola teiera smaltata, blu, verde o rossa, a volte decorata con dei fiorellini, borbottava calmando gli sguardi.
Da una cassettina rettangolare di legno erano usciti una piccola piramide di zucchero, il martelletto di rame per frantumarlo e sei bicchieri, alti una spanna, di vetro opaco, resistente; così spessi da tenere a lungo tutto il calore della bibita color ambra.
Una gavetta o un bicchiere più grande, tenuto lì accanto, sarebbe servito ad ossigenare il tè. L'operazione di travaso, eseguita con abilità e senso teatrale, richiede un ampio movimento dell'avambraccio, dal basso verso l'alto e viceversa.
Generalmente viene usato del tè cinese in palline, il cosiddetto gunpowder, polvere da sparo, per lo stesso motivo per cui è più comodo portarsi dietro dello zucchero in pani o in zollette. Appena immersa nell'acqua, la fogliolina accartocciata su se stessa, si distende, riacquista un'effimera vitalità.
Dopo aver travasato più volte il liquido, l'uomo seduto sui talloni inizia l'assaggio. In base alla suscettibilità o importanza dei presenti prova e riprova, aggiungendo zucchero e tè mentre viene messa sul fuoco un'altra teiera.
Quando si ritiene soddisfatto, riempie i bicchieri centrandoli dall'alto in rapida successione. Poi, senza una parola, li distribuisce.
Metafisica sociale
È a questo punto che il tè nel deserto si trasforma in una metafisica dei rapporti sociali. I bicchieri non possono essere più di tre. Se accetti il primo, il più forte, devi sorbire anche il secondo e il terzo. Rifiutarli è una prova di maleducazione.
Per gli stomaci delicati, l'unica via d'uscita è di limitarsi al terzo, eventualità prevista ed accettata. Il quarto, privo di teina, viene dato ai bambini, ma se è offerto a degli ospiti, seguito magari da un quinto, il significato è lampante: quella compagnia non è più gradita. Misteriosamente ma non troppo, il bicchiere dei saluti inderogabili si chiama fantasia.
Il tè del deserto scioglie le lingue, riscalda e corrobora; preso in dosi massicce provoca anche una certa ebbrezza.
In arabo si dice chai, in tamahaq, la lingua dei tuareg, atai ma nell'intimità del bivacco, superata l'iniziale diffidenza, gli ospiti lo indicano come «c'est mon alcol». Quando si mette piede nel deserto, il rumore del silenzio e del vento creano come un muro dietro cui ci si rifugia volentieri. Tra le prime reazioni di un europeo nel Sahara, un meditato mutismo è quella che gli fa più onore. La vastità della scena impone un'economia generale nei gesti e nelle parole. La voce interiore comincia a coprire il baccano esterno a cui si era abituati.
Tuttavia non bisogna esagerare e c'è almeno un'occasione in cui il silenzio potrebbe creare un equivoco.
Il tè si beve bollente, le labbra a beccuccio sull'orlo del bicchiere; le nostre buone creanze impongono brevi sorsate anonime, quasi di nascosto che il calore trasforma comunque in smorfie. Loro, invece, bevono tirando su, con la stessa voluttà del dromedario.
Fare rumore insomma è indice di apprezzamento, una cacofonia attentamente valutata.
Durante il viaggio, il cerimoniale del tè viene abbreviato, in casa invece non dura meno di un'ora e mezza; viene servito dai bambini nel cortile come aperitivo o dopo la cena.
Il tuo nome è colui che cammina
Alla fine di questa breve cronaca è il momento di dire la cosa più importante: non si può raccontare cos'è il tè nel deserto senza parlare dell'ospitalità nomade. Tutte e tre le religioni del libro, ebraismo, cristianesimo e islamismo hanno origine nel deserto, comune fonte d'ispirazione. C'è uno scrittore, Edmond Jabès, che ne ha parlato a lungo. Le sue parole sono limpide.
«Ti benedico ospite mio invitato - dice il santo rabbino - poiché il tuo nome è Colui che cammina. Il cammino è nel tuo nome. L'ospitalità è crocevia di cammini».
«Due certezze si contendono il deserto: una d'acqua, l'altra di polvere» in mezzo, si potrebbe dire, il tè. E ancora e meglio: «al di qua della responsabilità c'è la solidarietà, al di là c'è l'ospitalità».
Sempre un saggio: «dimentica chi sei, perchè in virtù di questo iniziale oblio tu sarai mio ospite».
Per concludere valga l'esempio di quel beduino che salvò due turisti nel Sinai e quando questi tornarono per salutarlo fece finta di non conoscerli. Li accolse come la prima volta, offrendo quello che aveva e solo al momento di separarsi nuovamente si spiegò: «se vi avessi riconosciuto, se avessi manifestato la mia gioia, il mio poteva sembrare un gesto interessato».
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