vendredi 8 mai 2009

François Simon commente Giacomo LEOPARDI : L’INFINITO

François Simon nous présente Giacomo LEOPARDI, son poète favori.
Il nous propose à travers lui une vision pleine de poétique de l'infini. A la suite de ce texte, il nous fait un commentaire très personnel sur cette oeuvre & de cet auteur "triste" ou plutôt pessimiste. L'empire du soleil est infini.


L’INFINITO

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando : e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Cosi’ tra questa
Immensità s’annega il pensier mio :
E il naufragar m’è dolce in questo mare.


Giacomo LEOPARDI (1798-1837)

Dietro il « natio borgo selvaggio » di Recanati vi è una collina che sovrasta il paese di Giacomo Leopardi. Egli, fin dall’infanzia, amava salire su quest’ "ermo colle", appunto perché era solitario. E sedeva dietro una lunga siepe che gli nascondeva la maggior parte del panorama. Il suo sguardo non vedeva altro che i cespugli. E da quel punto il suo pensiero volava verso un infinito che rivestiva due dimensioni : lo spazio (interminati spazi), il silenzio assoluto (sovrumani silenzi).

Nella prima stesura della poesia, il Leopardi aveva scritto : interminato spazio, sovrumano silenzio). Ma il plurale conferisce al concetto una maggiore infinitezza.
La terza impressione (profondissima quiete) sembra il risultato del primo « viaggio » che il pensiero del poeta fa verso quei punti estremi degli infiniti. Eppure, come quando uno si ritrova d’improvviso sull’orlo di un baratro, il Leopardi prova quasi un senso di paura. « Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraye », diceva Blaise Pascal. Ma non pertanto rinuncia a quella sua esperienza, che comunque gli permette di isolarsi dalla vita quotidiana e dall’infelicità della sua condizione nel castello paterno, tra genitori che non si curano di lui e tra coetanei che lo canzonano per il suo fisico e anche per il fatto che era « figlio del padrone ». Mingherlino, gobbo, e troppo sensibile per le rozze mentalità di quel paesetto marchegiano, il figlio del Conte Monaldo e della Adelaide Antici non poteva non ricercare la solitudine.
Pero’, mentre ha volontariamente proiettato i suoi pensieri verso l’infinito, viene bruscamente richiamato alla realtà : il rumore del vento che soffia nella siepe. A quel punto stabilisce un rapporto tra l’infinito silenzio e il rumore del vento, in un movimento di spola mentale. E si lascia invadere involontariamente da un’altra dimensione : quella del tempo, dall’eternità al presente, passando dalle « morte stagioni », cioè dalle epoche completamente cancellate dalla memoria umana.
E questo perpetuo movimento del suo pensiero copre tutto lo spazio-tempo tra eterno e presente : questa è « l’immensità » a cui allude, e che finisce col fargli perdere ogni sensazione diretta, ogni pensiero organizzato. Egli si abbandona con piacere a quel silenzio assoluto dei sensi », come avrebbe detto, S. Agostino. Perché gli procura la dolcezza del dimenticare se stesso.

Nella produzione sia poetica che filosofica del Leopardi, questa poesia è una delle poche che non sia pessimistica. Non che Giacmo Leopardi non amasse la vita, ma era consapevole che la vita non amava lui, e che non era dotato per la felicità .

François Simon
- Maggio 2009

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