jeudi 30 septembre 2010

Nicola Dal Falco : La caccia infernale

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La caccia infernale

È la pineta, l’alta ombra che il vento di mare fa risuonare, lo sfondo di una caccia infernale, naufragio di cuori e di corpi, abissale eppure realissimo.
Contrada silvestre e marittima, cupa o sfavillante di luce come la distesa d’acqua che la delimita.
Nelle pinete, il silenzio si carica sempre di un colmo di schianti e fruscii. Anche gli uccelli e gli altri animali la amano e la temono, passandovi svelti, di rifugio in rifugio.
Solo di notte, con la luna, i raggi tessuti ad uno ad uno sembrano regalarle un pensiero estraneo e finalmente felice.
Di questa maestà scontrosa, imprevedibile, si tesse la storia che Filomena narra nella quinta giornata del Decamerone dove l’amore offerto e rifiutato diventa il prezzo del passaggio, la moneta di scambio per l’aldilà.
Nastagio degli Onesti ama con tutti i mezzi che l’agiatezza gli mette a disposizione una delle figliole di messer Paolo Traversari.
Profonde nell’impresa grande costanza fino a che non decide di abbandonare Ravenna, inutile terreno di caccia, e di trasferirsi a Chiassi, tre miglia fuori dalla città.
Qui, ai margini della pigneta, si accampa come un re o un generale, trasformando la sua vita in attesa, patteggiando con se stesso un esilio dell’anima, un assedio a distanza.
Una mattina, però, per un motivo senza nome, l’orizzonte verde che ne cinge lo sguardo si apre e lo chiama. Pochi passi separano Nastagio dalla macchia, sopra cui si allunga la linea aerea dei pini.
Entrare nell’ombra assomiglia ad un’uscita in mare; è come salpare, violando l’anticamera del mare mare.
Il terreno, ricoperto d’aghi di pino, infonde piacevoli sensazioni e il canto di due uccelli – un accordo di note che si cercano – le trasforma in letizia. Era di venerdì, quasi all’entrata di maggio.
Lasciata alle spalle la radura, Nastagio s’incammina un mezzo miglio dentro la pineta prendendo, pian piano, visione del largo.
Inoltrasi e lasciarsi portare dalla profondità che cresce.
Per un po’ quel grado di ebbrezza conserva i contorni di una vertigine controllata, ma all’improvviso, tutto s’incrina ed è l’udito, come in un violento risveglio, a squarciare la seta del mattino.
Come se il mare avesse iniziato a battere la riva, si ode uno strepito di rami spezzati e un crosciare di fronde; all’urlo e alla corsa pazza di qualcuno che si fa largo nella macchia, si mescolano il latrare basso e continuo dei cani e, ancora lontano, il trotto sostenuto di un cavallo.
Scaturiti dall’ombra, dalle pieghe della terra, appaiono una giovane inseguita da due mastini che la incalzano, mordendole i fianchi e i polpacci.
Corre piegata in avanti, nuda, le braccia tese come a nuotare per avanzare in fretta.
Non ha più sguardo negli occhi, solo la corsa innanzi e un vuoto dietro che la risucchia.
Alle spalle, incombono fusi nello stesso vento il cavallo nero e il cavaliere bruno, con il braccio alzato, armato di stocco, lanciando parole spaventevoli e villane.

*

Riuniti tutti gli elementi della scena, la vista si riprende l’attenzione, quasi ad escludere i rumori che fino a quel momento avevano fatto galoppare i pensieri.
La stessa concentrata brutalità che affiora nel quadro di Botticelli dove i colori, incastonati nel contorno delle figure e delle cose, squillanti e ripiegati in sé, seguono la luce mortale, saturnia, del dramma, aggravato, per così dire, dall’orizzontalità della sequenza.
I fatti preludono ad un epilogo che è destinato a ripetersi per un tempo fissato e, pertanto, la scena si dipana simile ad una fune tesa, tirata in una direzione e destinata a riannodarsi nuovamente al suo inizio.
Perciò, in un silenzio che non c’è, Nastagio, sciogliendo i nervi aggrinziti, trova e impugna un ramo. Lo fa d’istinto per difendere la giovane dai cani e affrontare il cavaliere bruno.
Gli intima, anzi, di fermarsi e quello, mostrando di conoscerlo e chiamandolo per nome, gli risponde di non immischiarsi, che subito capirà la ragione e il senso di quanto accade.
La giovane inseguita e il cavaliere inseguitore compiono un loro viaggio infernale, scontando per analogia, in “loca maritima”, una pena tutta terrena.
Colpisce l’ambientazione del racconto che sceglie la marina di Classe, fuori Ravenna, quasi che la reciproca vicinanza di terra e di mare ispiri l’abbraccio e la paura tra il prima e il dopo, l’evidenza dei desideri e il prezzo che la vita reclama.
Perché un patto infranto, anzi, ignorato è alla base della vicenda del cavaliere bruno, specchio delle incomprensioni d’amore che affliggono il cuore di Nastagio.
Così doppia è la vicenda che il suo nome, Guido degli Anastagi, riecheggia quello dell’incauto spettatore, incamminatosi nella pineta.
Anche Guido ha amato senza possibilità alcuna una donna che ne ha umiliato gli sforzi, aprendosi al sorriso solo dopo che l’amante si era arreso al suicidio.
Ora, il cavaliere con lo stocco, vestito di bruno - il colore della terra nuda che rimanda all’espressione torva del viso - anela vendetta, mette il proprio braccio a servizio della divina giustizia.
Divina in un senso più pagano che cristiano per l’offesa arrecata ad Afrodite e ad Eros, al dovere di scambiarsi doni e futuro, accumunando la gioia che insegue il tempo breve, rarefatto, d’ogni esistenza.
Dovere d’amare, di sottomettersi senza orgoglio alla potenza dei due divini antenati.

*

Nastagio apprende che tutti i venerdì, per quanti anni è durato l’inutile amore di Guido, questi dovrà inseguire la donna nella pineta, braccarla e ucciderla.
La ripetizione scandisce la comune condanna, trasforma anche il cacciatore in cacciato, preda del proprio furibondo dolore.
Nel giorno della passione, all’amata insensibile e quindi insensata è inflitto un supplizio che ricorda l’orgia ferina delle Baccanti, un rito di sangue sotto gli alberi.
Con puntuale e macabra sollecitudine i due mastini immobilizzano la giovane, addentandole i fianchi.
Allora, il cavaliere bruno, sceso da cavallo, affonda la lama nella schiena; la colpisce alle spalle come farebbe un animale o un boia, strappandole cuore e viscere, per gettarli ai cani.
Simbolico banchetto dove sul piatto della colpa sono messi tanto i sentimenti rinnegati quanto gli istinti che non ebbero il coraggio di restare leali.
Ed ecco che, terminato il pasto, come appeso ad invisibili fili, il corpo martoriato della donna riprende forma e vigore. Si alza, piega le ginocchia e riprende a correre, nuovamente inseguita dai mastini, mai sazi, e dal cavaliere, giudice e vittima della propria e altrui colpa.
A mano a mano che il romore disperato della cacciata si allontana, la pineta torna alla sua frusciante immobilità, non più vuota e un po’ più silenziosa.

*

È in questo interregno d’attimi e sensi che Nastagio pietoso e pauroso ripercorre tutta la scena, tanto improvvisa e orrida da provocare una sorta di vertigine, lasciandolo sull’orlo di un precipizio.
Così, appena decide di muoversi, di uscire dall’ombra della pineta, i pensieri corrono a riallinearsi e affiora, semplice e cruda, la decisione.
Qui e di venerdì, offrirà un convito in onore della famiglia Traversari.
Saranno loro a farsi “cacciare”, a precipitare nel dramma, correndo all’indietro, ai giorni passati. E più veloce di tutti fuggirà la figlia, morsa a sangue nella sua alterigia.
Basterà la visione della caccia infernale a convertire il cuore della ragazza, a farle assaporare un destino diverso e qualsiasi. L’incubo diurno, il colpo di teatro segnerà la strada che dalla pineta riporta alle campagne e alla città dove la vita scorre continua se nessuno la devia e l’impaluda.


Ravello, settembre 2010

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mardi 28 septembre 2010

Alan Broc : Jaque Azais e lou miracle lengadouciô (Part 2)

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Emìli Barto, que sinhabo « Emilo Barthe » èro lou paire de Rogièr Bartha, l’arganhol que faguè un (be pietre) gloussàri francés-oucitan. Mas èro felibre mistralen e pas oucitan coumo soun filh indinhe*. Sa pèço « Lous proufitaires » soubre li proufitaires de guerro, aguè un grond succès en 1922 e dien lis annados seguissentos.

(* Sou pas parents d’Enri Barthes, simplo oumounimìo)

Vaqui un troç de « Las dos aujolos » :

Ai ausit parla dos Aujolos,
Dos aujolos del vielh Capnòu,
Un mati que picabo nòu
Sul pichot plo de las Escolos.
Al sourel, coumo las angrolos,
Escoutabi ço que disiòu,
So que disiòu las aujolos,
Las aujolos del vielh Capnòu.

Pourtabou toutos dos la cofo à mentounièiros,
La gento cofo-liso empesado de fresc,
E sus arans tibats, patetos bugadièiros,
Espandissiòu de linge empilat dins un desc.
« Pauros cofos, disiòu las vielhos,
Òu bel voudre pas se rafi,
Couneiròu lou sort de las felhos,
Nostre ivèr ne veira la fi.

…..

Ai ausit ploura dos Aujolos,
Dos aujolos del vielh Capnòu.
Un mati que picabo nòu,
Sul pichot plo de las Escolos !
Sus un peirou, joust las gandolos
Al sourel se refaudissiòu,
E plourabou, las dos Aujolos,
Las Aujolos del vielh Capnòu.

Pourtabou toutos dos la cofo à mentounièiros,
Mès del goufre aviòu trach la plus bello, aquel jour.
Veniòu de s’avisa qu’èrou las dos darrièros
À mantene al Capnòu la cofo de toujour.

E se disiòu, las pauros vielhos,
En essugant tout-cop lous els :
Qual sap s’à las nouvèlso felhos
Ausiren canta lous aucels ?

L’an passat eren quaucos-unos
Qu’avian de blanc lou frount cenchat;
Mès s’en passo dins tretge lunos !
E mai d’un frount s’es refrejat !

Nautros també tendren pas gaire,
M’es pas de mouri qu’aven pòu !
Es que se partissen, pecaire !
Las darrièros cofos s’en vòu.

Paure Capnòu ! coussi t’atudos !
Qual t’a vist, qual t’a counescut !
Pauros, nautros disparescudos,
La cofo-liso aura viscut !

.........

Ai vist enterra dos Aujolos,
Dos aujolos del vielh Capnòu,
Un mati que picabo nòu
Sul pichot plo de las Escolos,
Darré lou Crist e las estolos
Eri de lous que seguissiòu...
Ailas ! amé las dos aujolos
Enterraben tout lou Capnòu.

Beziés, 1926


Ж


Antounieto Conte-Regis escrieu meravilhousomen de legendos en vers. Si pouemos sou trop loungs per tout cita, mas sa lengo’i tant eleganto que me sentirio coupable de ne cita pas almen de troçs.

Vaqui dounc de boucis de duoi legendos :

LOU BARRAL DE SANT ANDÌU


So que vou vau counta, ma grand nous hou countavo
Tout en fialant al fus, lou vèspre, à la velhado,
I a de pla braves ans.
Un jour, foro Beziés,
Caminavo soulet un paure. Sèns souliés,
Lou boumbet petassat, lou barral sus l’esquino,
Mal vestit, debralhat, avio michanto mino;
Marchavo à tout asard, per cerca de traval:
La misèro i avio fa quita soun oustal.

....

Tout just l’endema d’aquel jour memourable,
Lou mèstre, de seguit, se rendèt à l’estable.
Grand Dìu, de qué vejèt ! Sus la palho estirat,
Tout vestit, l’èr urous, lous biòus à soun coustat,
Andìu, lou brave Andìu, venio de rendre l’amo !
Als alentours deja la nouvelo s’issamo
E lèu-lèu tout lou mounde hou aprend dins Beziés;
Un soun que s’espandis de toutes lous clouquiés
Roumplis d’estounament la vilo touto entièiro:
“Vuèi Sant Andìu es mort ! – Ounte ? – À la Galinièiro !”

Atapat d’un lençol coumo d’un blanc mantèl
Arribo douçamen mountat sul toumbarèl
Lou Cos tant venerat que cadun à la filo
Acoumpanho’n plourant. Lous biòus cap à la vilo
Marchou souls, dapassous, sèns jamai se troumpa.
Sous uèlhs disou “Saben ounte nous cal ana,
Coumo de soun vivènt es Andìu que nous meno”.

D’efèt en arribant davant la Mataleno
Vouliòu lous arresta per lou Dies Irae:
Nostres dous animals escoutèrou pas re.

Tal ma grand m’hou diguèt, es tal que vous hou disi,
S’en anèrou tout drech jusqu’à Sant Afroudìsi.

Dins toutes lous clouquiés, sempre lou mème soun.
Las campanos toujour se respoundiòu d’amount
Mentre qu’en bas fasiòu la pregàrio darrièiro:
“Ai ! Sant Andìu es mort ! – Ounte ? – À la Galinièiro!”



Ж




De la mèmo autouresso, un troç de :


SANT AFROUDISI E LOU CAMEL


Lou premié per asard que vejèt un camèl
De la pòu fujiguèt d’aquel bestial nouvèl.
Un autre s’acampèt pau à pau, mès pas gaire,
Pèi enfi lou tresen, mai ardit gausèt faire,
(Saique èro bouralié), un soulide licol
Per pourre aisidamen lou mena per lou col.
Quand lou grand La Fontaine, à la liro mannado,
Engimbèt un bèl jour sa fablo renoumado,
Arribavo segur d’un vouiatge à Beziés
E venio d’assista à toutos las fouliés,
Als divertissaments que s’i fòu cado fèsto,
Cado carnaval, ambé lou Camèl en tèsto,
Un grand camèl de bouès, d’un boun biais imitat,
Sempre pintrat de nòu, atifat, arnescat,
Sièis omes en dedins lou butou per la vilo,
La jouinesso en dansant lou seguis à la filo ;
Al soun del flahutet, del pifre, del tambour
Que jogou en trïò ou cadun à soun tour.
Vous dirés : Perqué la vilo renoumado
Per sa grando sapienso e soun imour senado,
A causit per simbèl un animal boussut,
Estrangié del païs, dins lou desèrt nascut,
Que s’aparento pas amé nostre terraire,
Ni ambé nostre ana ? Vous countarai l’afaire.


Se passèt quauques tems après la mort d’Aguste
Del tems que lous Roumans, sèns gueita s’èro juste,
Mestrejavou pertout, fasiòu pertout la lé,
E pendent sièis cens ans gardèrou lou poudé
Dins nostro terro d’O. Aqueles cerco-bregos
Crentavou pas de fa de lègos e de lègos
Per ana counquista, quand èro à soun agach
Quauco bello encountrado, amai aviòu lèu fach.
Uno fes establits, preniòu de ma de mèstre
Lou gouvèr de la vilo amai dins lou campèstre
Faguèrou d’atahuts, de camis e de pounts,
E per fa gauch al pople e lou ganha d’à founs,
Bastiguèrou de banhs, de cirques e d’arenos
Ount lou public venio per delembra sas penos.
Biterro escapèt pas à-n-aquelos baujès ;
Leissèt lèu de coustat lou vièl dìu Teutatès
Per Eròs e Venus. Encaro on vèi de rèstos
D’aqueles mounuments ounte fasiòu sas fèstos.


L’aubo avio tout-escas levat lou coubertou
Que la nèit cado sér pauso sus l’ourisou,
E la darrièro estello èro pas amoussado
Qu’un ome matinié à la marcho preissado
Seguèt sourprés de veire un foutral d’animal
Arrestat davant el. Ero pas un chaval
Ni un biòu, ni un miol. Moustre diaboulique
Que la mièjo clartat rendio mai fantastique
E que cap d’ome vìu avio pas jamai vist.
Moun Dìu ! de qu’es acò ? Qual sap d’ounte sourtis ? »
Se diguèt tout pauruc. Adounc prenguèt la courso
Coumo quand un voulur vous demando la bourso.

Lèu un autre passèt, caminant sèns soucis.
Al countour d’un oustal se troubèt vis-à-vis
De la bèstio en questiou : « Diables, de qué pot dèstre ?
Qu’es aquelo bestiasso, aqui, sèns cap de mèstre ?
Saren-nous un pauquet. Paure, quanes vistous !
On dirio que m’agacho am’ un èr pietadous !
Nou, m’esperavi pas à-n-aquesto aventuro ! »

Mès aro lou sourel sus touto la naturo
Trai sous raises daurats, e dins cado quartié
Cadun a coumensat soun prefach journalié,
Cadun prend soun trin-tran, sa vido acoustumado.
La nouvèlo courris, touto uno troupelado
D’omes, fennos, efans, ve per curiousitat
E lous rasounaments sisclou de tout coustat.
Enfi un assistent qu’èro mai à la coulo
Pren la paraulo e dis à touto aquelo foulo :
« Vous assabentarai, acos es un camèl ;
Sai-que cresès pas que nous es toumbat del Cièl ?
Fosses couneissès be Froudìsi lou prechaire ?
Aquel que mai d’un cop nous a ficat d’un caire,
Amé sous grands discours, es el que lou menèt.
I èro mountat dessus quand aici s’arrestèt.
Arribavo de Roumo am’ uno autro persouno
Que s’apelavo Pau e qu’anavo à Narbouno.
Fourdìsi, qu’èro las, pousquèt pas lou segui
Car èro pla mai vièl, s’establiguèt aici.

….

(Dono Conte-Regis « Legendos Bezieirencos,
Contes e remembres en lengo mairalo. Beziés, 1937)


Vaqui, espèri que vous fazèt un idèio del miracle lengadouciô, aquéssi noutables qu’escriviou en lengo d’o. Se cado prouvìncio d’o avio agut lou meme miracle, aurion seguit lou chami di Catalôs d’Esponho ounde la bourgesio o restaurat soucialomen la lengo.

Aquel miracle venio de Jaque Azais e di dous valents, que cadu de soun coustat, gausèrou manda un pouemo en oc à una soucietat que n’avio pas damandats : lou tarralhier Jan-Antòni Peyrotto e l’ouficier Andriéu Vilar.



Alan Broc, felibre d’Auvernho

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dimanche 26 septembre 2010

Annie BERGESE A la prime saison

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A la prime saison

La belle saison pascale qui renouvelle feuilles, fleurs
et tant de parfums exhale, redonne à l’espoir sa saveur.

Car si j’ai le cœur bien dolent, si connais grand dommage et fol tourment
quand de sa cruelle froideur, fière, elle ignore ma prière,
je vois l’hiver qui saisissait la sève…

De la mort infligée hier, j’attends, valeureux, la trêve
quand le bleu miroir de ses yeux se fera braise printanière.


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vendredi 24 septembre 2010

Alan Broc : Jaque Azais e lou miracle lengadouciô (Part 1)

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Jaque Azais e lou miracle lengadouciô


Vau dire de be de Jaque Azais. Acò me costo un pauc puèi qu’èi legit lou « Mistral » de Mauroun, e que sabi dounc que refuzè la mô de sa filho à Frederic Mistral per qu’èro pas prou riche. Aquelo mesquinario afrabo lou remembre que gardan de guel.

Pamen jouguè un grond rolle dien ço que sounarèi lou miracle lengadouciô, ou per m’adapta al parla regiounau « lou miracle lengadoucian ».

I aguè ammé Mistral un miracle prouvençau, la lengo restaurado dien sa dinhitat e la bouno bourgesio prouvençalo que se picabo de legi en prouvençau.

Jaque Azais es pas del nivèl de Frederic Mistral, plô lonh d’aqui, mas coumo dis Enri Barthes, l’autour de l’antoulougìo « LAS BEZIERENCOS, l’Istòri de Beziés countado per sous pouetos, testes lengadoucians, grafìo felibrenco » (1981) :

« S’aven pas aici un Mèstre que douminario tout soulet, aven uno colo d’escrivèires de bouno trìo, e lou Felibritge Bezieren a fa ounour à soun terraire, à sa parladuro, e à la Lengo d’O. »


Vau leissa çaquedelai Enri Barthes presinta ço que souno « la segoundo butado » de la letraduro bezierenco :

« A la debuto del segle XIXen, uno colo de letruts de Beziés, Doumairou, Boudard, lou Marqués de Theza-Sant Geniés e d’en proumié Jaque Azais, s’acampèt per reviscoula l’Acadèmi de Beziés, que s’èro anequelido au tems de la revouluciou. Foundèroun en 1834 la « Soucietat Arqueoulougico, Scientifico e Literàri ». En 1835 arrestèroun amé l’agrat del Municipe de faire un mounument en l’ounour de Pau Riquet. … Per enlusi aquelos fèstos, la Soucietat bailejèt uno meno de « Jocs Flourals imitats de l’Acadèmi de Toulouso, en balhent uno courouno o uno flour en or o en argent as pouetos lous mai africs per saluda la memòri e l’estatuo de Pau Riquet.

Lou bel jour del councours, en mai 1838, la Jurado s’avisèt que i avio dous pouemos en lengo d’O : un de Jan-Antòni Peyrotto, taralhié-poueto de Clarmount, l’autre d’Andriéu Vilar, ouficié de Sant-Andriéu de Sangònis. Degus esperavo pas aquelos obros « patouesos » e, mai encaro, escritos dins lou dialeite de Clarmount, prou diferent del bezieiren. Pamens la Jurado las foro-bandiguèt pas e ié balhèt un prèmi especial. Desempèi, cado an, la Soucietat Arqueoulougico de Beziés a bailejat aquelo councours en lengo d’O : èro la proumièro de toutos las vilos del Miejour, e aquel eisemple seguèt precious per l’espandimen de la renaissènço de las lengos d’O.

Acò venguèt pas aital tout soulet. Desempèi 1835 au mens, Jaque Azais, lou capoulié-foundatour de la Soucietat Arqueoulougico escrivio en lengo d’O dins lou journal de Jousé Desanat, de Tarascoun « Lou Bouil-Abaisso » ounte escrivio també Jan-Antòni Peyrotto. Un autre escrivèire prouvençal del Bouil-Abaisso èro Jousé Roumanilho, de Sant-Roumié. Azais e Roumanilho s’afrairèroun, lou besieiren revirèt dins sa parladuro un des proumiés sounets del sant-roumieren : « Pèr li paure ». Aital counesquèt encaro d’autres pouetos prouvençals coumo Diouloufèt e d’Astròs. So que se passavo en Prouvènço entre 1835 e 1840 inspirèt lou capoulié de l’Acadèmi bezieirenco.

Lou Councours de Beziés e lou liame de Beziés amé la Prouvènço pot esplica l’espelisou d’uno literaturo d’O aboundouso, amé Jaque Azais, soun filh Gabriel, Jan Laurès, Benjamin Fabre… Gabriel Azais, amé l’ajudo de Pau Meyer estampèt, quinge ans avans lou Mèstre de Malhano, lou proumié Diciounàri scientific de la Lengo d’O, que preparavo lou cami del « Tresor dóu Felibrige », obro soubeirano pamens. Aremarcaren encaro que Mistral venguèt à Beziés en 1863 e 1864 per trabalha ame Azais e Donnadiéu e lous autres à l’espandimen del Felibrige dins lou Lengadò. »



Dounc, coumo autour Jaque Azais rivaliso pas ammé Mistral, mas lou miracle lengadouciô traspassè lou miracle prouvençau soubre un pounch : ambé Mistral la bourgesio prouvençalo se picabo de legi en lengo d’o, amm’ Azais e si coulegos la bourgesio lengadouciano se picabo d’escrieure en lengo d’o.

Vau coumença amm’ aquel sounet del douctour Leopold Vabre trat de « Lous cants d’uno cigalo », pareguts dien la periodo entremié las duoi guerros moundialos.

Lou beili toujour i debutants de Primièro e de Terminalo. Es una bouno introuducciou à la lengo amm’ à la letraduro d’o :


VENDÉMIOS


Quano joio per lou pacan
De vèire uno poulido frucho
Sus la terro anounte tout l’an,
Vèspre e mati, trabalho e lucho.

Li fa bel gau de s’enebria
Del vi que dono lou benèstre
Quand, al relotge de campèstre,
Pico l’ouro de vendemia.

Tu sos ma vigno que d’amour
Ai asagado nèit e jour,
Per que flourigou sus ta bouco

Coumo lous rasis sus la souco
Am’ un goust siave e melicous
De panieirados de poutous.



Lei rimos se seguissou banalomen mas lou tèste es gracious. Quau sap s’aven inquèro de metges qu’escrivou en lengo d’o ?



Demié li coulegos que seguiguèrou Azais i aguè aquel Reinat Fournié que sabi pas ris de guel :

LOU POUNT VIELH

Oi ! que n’as vist passa, vielh pount dins la poulsièiro
De mounde de tout biais preissat sus tous cairous,
Despèi l’epoco antico ounte de fougairous
Alucats as truquels sounavou l’ost guerrièiro.

Viscountes, gouvernous, rèises, cours parlufièiros,
Còssous libres vestits de roujes capeirous,
Salits per saluda l’avèsque pouderous,
Crousats de mort que de nostres bes fasiòu fièiro.

Matat es l’enemic de Beziés assalhit,
Vuèi enaussos, urous, lou cèucle de tas arcos
Coumo un galoi trelhaire al dessus de las barcos.

Te travesso soulet lou pople atrabalhit,
E per leissa passa sas chourmos pacificos,
Encambos toujour l’Orb de tas pèiros anticos.


(del recuei « Lou cor en flou »)


Ж


Jaque Azais, despinto un bal « encò del President de Justiço de Beziés »


Sus un bel bastiment, lou marin se regalo
Quand a lou vent en poupo e que bufo à grand trin ;
Lou cavalié jouïs quand sus uno cavalo
Detalo coumo un Bedouhin ;
Lou mainatge’s countent quand vei, velho de sègos,
Soun blad amé lou gro que salis del pelou,
Ou l’ouliu emblancat que se vèi de dos lègos,
Ou la vigno fialairo am’ soun rasi en flou.
Mès per la jouinessoto, au mens per las menudos,
Li parlès pas de blad, de granjo, de chaval ;
Las voulès tout d’un cop galoios e mourrudos ?
Toutes sabès de qué li cal :
Un bal.



Ж

Un aute noutable, Pau Paget, reviro li vers de Vergèli e li presinto per un sounet.

SOUNET PEL SULHET A VERGÈLI


Lous temples de Janus èrou sempre douberts,
Sèns relàmbi lous flèus que Mars sanglant debano
Brandavou, quand enfi la grando Pas Roumano,
Vergèli, s’alandèt sus l’inmense univers.

Dourbiguèros alor las alos de toun vers
Per rendre al cor agrit l’amenitat anciano,
Al tems de l’atge d’or la douçou soubeirano,
Des camps abandounats per poupla lous deserts.

Per faire reveni la Justiço bandido,
Per dire lou bounur de la familho unido,
Dins la serenitat des agrestes travals.

En nostro lengo d’O dount la tèuno es la maire
Ai gausat revira tous verses magistrals
Per rendre, à ma faiçou, sas ounous à l’araire.


2 Ouctobre 1928
(Las Georgicos de Vergèli revirados en verses lengadoucians)




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mercredi 22 septembre 2010

Annie BERGESE : Tempouro luenchenco

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Tempouro luenchenco


Tout parié Bernart d’Auto-lucho, tout à sa joio,
que miés canta voulié, toujour miés,
iéu, à moun dòu, vole tambèn :
Tant aut que s’enauro l’amour que moun cor
ié tremoulo e mor,
tant aut mi vers déurien s’enaussa,
s’enaussa enca,
plus aut que tóuti li cant que se voulien escriéure, Ami,
e que fuguèron escri.
Emé Conort vole lou dire,
Coum’Aziman, me fau trouba.
Jamai joio sènso doulour,
Quisto d’amour assadoulado
Enjusqu’au Jour
De blanco espèro.



Annie BERGESE

mardi 21 septembre 2010

Charles Coquebert de Montbret : une étude sur les dialectes de France

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Cet article cité ci-dessous est à voir sur Lexilogos, en totalité lien ici !!! Je regrette de n'avoir pas trouvé les version Corses, Catalanes,....


" En 1807, le ministère de l'Intérieur confie à Charles Coquebert de Montbret une étude sur les dialectes de France. Il fait traduire dans divers parlers la parabole de l'enfant prodigue (Évangile de Luc, XV, 11).

A cette époque, l'orthographe des langues régionales n'était pas définie : ces langues étaient avant tout parlées et rarement écrites, suf pour les parlés d'Oc ou méridionaux, comme l'on disait alors ! ."



Murillo


Langues D'oil :

français

Son fils lui dit alors : mon père,
j'ai péché contre le ciel et contre vous ;
je ne mérite plus d'être appelé votre fils.
Mais le père dit aux serviteurs :
Allez vite chercher la plus belle robe
et l'en revêtez,
mettez-lui au doigt un anneau,
des souliers aux pieds.
Amenez le veau gras et tuez-le,
mangeons et faisons liesse

morvandiau (Nièvre)

Et son fiot ly dié : Men père,
y ait pécé conte le ciel et conte vous aitout,
y n'mairite pu d'eitre aipelé voute fiot.
Anchitôt, le père dié ai sas valots :
aiportez vias sai premère robbe
et vitez ly,
boutez ly enne baigue au det
et das soulés dans sas piés.


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Rembrand

Langues D'oc
auvergnat (Ambert)

Son garsou li diguet : Payre,
iou é petcho contro le chia et contro vous ;
et iou ne sé pu digne d'être appella voutre garsou.
Adon le payre diguet en sons vali :
pourta la pu bèlo raubo
et metta lo li
et meta li uno bago au de
et de soulards en sons pès.
Mena mai le vedet gra et tua le.
Mangean et fagean bouon fricot.


gascon (Gers)

E soun hil qu'eou digouc : Moun pay,
qu'ey peccat cost'oou ceo é daouant bous :
nou souy pas mes digne deou noum de boste hil.
Lou pay que digouc a sous baylets :
Biste, biste, pourtat sa pruméro raoubo
é boutats l'oc ;
boutats lou la bago aou dit,
é caoussats lou.
Amiats lou bedet gras, é tuats lou :
minjen é hascan uo gran' hesto.
Aimouniez aitout le viau gras et l'tuez :
mezons et fions fricot.


languedocien (Carcassonne)

Sou fil y diguée :
Ei pécat costo lé cél et costo bous,
soun pas pus digné d'estré appellat bostré fil.
Soùn païré diguée à sous baïléts :
Anats querré dé suito sa prumièro raubo,
cargats-y lo,
mettez-y soun anel à la ma ;
baillats-y uno caussura.
Et anats quérré un budel gras, tuats-lé,
lé manjaren et nous mettren en festo


provençal (Marseille)

Et soun fieou li diguet : Moun païré
ai peccat contro lou ciel et contro de vous,
noun siou pas digné d'estre appelat vouestre fieou.
Alors, lou péro diguet à seis domestiquos :
Adduses sa premiero raoubo,
et vestisses lou ;
mettes-li une bague oou det
et de souliers eis peds.
Adusés lou vedeou gras et tuas lou,
mangens e faguem boumbanço.


limousin (Haute Vienne)

Lou drolé ly dissé : Paï
ai pécha countré leu ceu et dovant vous,
Ne mérité pas d'éssé péla votré fils.
Mas lou paï disset à sous valeis :
Pourta vité lou meillour hobit,
billas lou,
boillas li un ouneu à sous deïset,
dòs souliers à sous pés.
Ménas lou védeù gras, tuas lou,
minjans lou et eibotan nous.

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Batoni

Franco Provençal

valaisan (Saint-Maurice)

Son meniot la y a det : Mon père
y ai petchia devant le chel et devant vo ;
ye ne sey pas digno ora d'être appèlo voutrom fi.
Mais le père a det à son valets :
Apporta ley to de suite sa première roba
é la fey bota ;
metté ley ona baga u dey
é dé solar è pia ;
amènà le vè grà é toa lo ;
mindzin é fézin granta tchiéra.

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lundi 20 septembre 2010

Jean Michel Rezelman : Peintre & non-voyant & un poème de Paul Valéry

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Jean Michel Rezelman

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« … Salut ! Divinités par la rose de sel,
Et les premiers jouets de la jeune lumière.
Iles ! … Ruches bientôt, quand la flamme première
Fera que votre roche, îles que je prédis,
Ressente en rougissant de puissants paradis ;
Cimes qu’un feu féconde à peine intimidées,
Bois qui bourgeonnerez de bêtes et d’idées,

D’hymnes d’hommes comblés des dons du juste éther,

Iles ! Dans la rumeur des ceintures de mer,
Mer vierges toujours, même portant ces marques,
Vous m’êtes à genoux de merveilleuses Parques:
Rien n’égale dans l’air les fleurs que vous placez,
Mais dans la profondeur, que vos pieds sont glacés ! … »


La Jeune Parque
Paul VALERY
POÉSIES - Édition nrf -
Page 95 - 1942 / Gallimard



En ce moment en ce lieu unique d'Avignon une exposition intimiste & originale, qui défraye le temps, les modes & les conventions...

Sensibilité d'un homme qui ne ressent pas le même monde que ses contemporains mais qui a aussi des souvenirs de ce que fut ce monde "commun"...

En divaguant en ville, je ne peux me passer d'une halte en ce lieu, qu'est la maison de la poésie d'Avignon, mais qu'elle surprise !!!

Voilà une oeuvre & un livre de quoi vous faire sortir de chez vous, pour VOIR le travail de celui qui ne nous voit plus, mais qui nous ressent encore pour nous donner un tel spectacle !!!


Profitez en c'est gratuit !!!


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Le livre d'Estelle Goutorbe


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dimanche 19 septembre 2010

Clovis Hugues : A Rimo-Sausso

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A Rimo-Sausso


Tu que m’as fa de vers en lengo provençalo,
Gramaci, bon jouvènt! Toun cant m’a fa plesi,
A dessouto moun front fa vounvouna sis alo
E moun cor pensatiéu, l’entènd encar brusi.

Tout es bèu, tout es grand dins nosto capitalo,
Mai voste ardènt soulèu manco à noste desi,
Lou cèu plouro toujour, e la pauro cigalo
Es lèu descourajado e canto gaire eici.

Iéu, quand vole escaufa ma tèsto refrejado,
Vau vers Vitour Hugo, mi caufa à si pensado
Coume s’èro soulet pèr escaufa Paris.

Puei, tout reviscoula, lóugié coume uno caio,
M’enfounse dins li bos e tout de-long li draio,
Parle emé lis aucèu la lengo dóu païs.



Rimo-Sausso: Pascau Cros, fuguè foundadou de la Sartan - journau prouvènçau



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jeudi 16 septembre 2010

Annie BERGESE : Canso ininterrompue

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Canso ininterrompue

Lorsque revient le mois de mai, quand je vois l’aronde voler,
Ami, comment ne pas chanter la joie, le retour et l’amour
dont le feu qui nourrit mes lignes comme le chant du troubadour
meut givre et neige en fleurs inverses et couronne les plus indignes ?

Quand je vois l’aronde voler, Ami, comment ne pas chanter
la joie d’aimer et d’être aimé, le pur émoi qui tant bouleverse,
le noble désir exaucé, le secret à nul dévoilé
où l’être enfin est révélé du regard qui lui est porté ?

Ami, comment ne pas chanter la joie d’aimer et d’être aimé,
fût-elle du bonheur l’éclat exilé au lointain passé ?
La joie d’antan qui transforma et dont il reste la douleur
Me ravit de son souvenir quand je vois l’aronde voler.


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mardi 14 septembre 2010

S A Peyre : APRÈS DE MILENÀRI...

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APRÈS DE MILENÀRI...

Après de milenàri dins l'escur,
Uno amo se reviho e se remento,
Oublidado, perdudo, i foundamento
De la vido, de l'obro e dóu malur.

— Quant i'a de jour que ma vido es passado?
Es que la mort a leissa quaucarèn
De moun desir, de si gèst aparènt:
Ma voio lasso e ma joio estrassado?

Di long travai toujour recoumença,
E di grand chaple, e di vèspre tranquile?
I'a-ti plus rèn que se taise o que quile,
I'a-ti plus res? I'a plus que de pensa,

Dins l'estrechun de l'oumbro e de la pèiro,
Presounié de l'eterne, que noun saup
Se l'auro de la mar, pleno de sau,
O se la plueio, e la vitro que guèiro,

Soun encaro un alen, uno tristour,
O se la terro es uno luno morto?
De que s'enauro au rode de la porto,
E de que s'amoulouno? E la mistour

D'aquélis ur de pas e de relèime,
Quouro i'a plus d'espàci ni de tèms,
Quouro la vido à la gràci se tèn,
E que lou cors es uno flour de l'èime.

Es lou desvèi d'un mort incouneigu,
Un sounge dóu noun-rèn, qu'estouno encaro,
Estènt que vuei, liuen de ço que s'encarro,
Uno musico a davala dins tu.


(1947.)


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samedi 11 septembre 2010

Li Pimpinello : lou 3 dóu mès d'Óutobre de 2010 à Gadagno !

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L'assouciacioun: « li Pimpinello » ourganiso pèr lou 3 dóu mès d'Óutobre, uno chanudo journado sus lou tèmo de la naturo e de la bioudiversita au jardin.

« Jardin d'autouno »: au prougramo: counferènci, animacioun e espousicioun sus très tèmo, emé d'intervenènt de trio: lou vegetau, lis insèite, boutanico e pouësio prouvençalo.( espousicioun d'un erbié prouvençau, istori de jardin emé Moussu Pèire Courbet, e la chanudo espousicioun d'Enri Courtois: « dins li piado de Mirèio »
em'acò, dins lou pargue, de 10 à 16 ouro, tro de planto, e pichot intermèdi musicau, vesito dóu doumaine viticolo de la capello , cansoun pèr lis enfant.( à coustat dóu castèu)

Tout acò se debanara au castèu de la capello, à Castèu-Nòu -de -Gadagno, de 9 ouro dóu matin à 18 ouro de vespre.
Se n'en voulès saupre un pau mai, podès ana regarda sus la telaragno, lou site de l'assouciacioun: www.les-pimprenelles.com


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vendredi 10 septembre 2010

P. Berengier : “Mémoires de pauvres”, ed. Garae Hesiode

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Memòri de paure

Un recuei d’autoubiougrafìo escricho en vers e en lengo d’O, au siècle XIX, pèr de mounde dóu païs, vèn d’èstre publica souto la beilié de Felip Gardy e Felip Martel.

“Mémoires de pauvres” nous dis ço que fuguè la vido entre Rose e Garouno de Napouleoun I à Napouleoun III. De paure mounde que dins sa lengo, “en patoues” coume disien sènso ié metre ges de mesprés, capitèron pas la glòri (Jasmin, soulet, mountè à Paris…). Fuguèron seminaristo, païsan, mestieiriau e, fièr de sa vido, vouguèron pourta testimòni e se racounta dins sa lengo. Uno meno de revenge, belèu.

L’edicioun d’aquéli testimouniage, es acoumpagnado de la reviraduro en francés e de noto que n’en fan un doucumen istouri, einougrafi e tambèn lenguisti. Lis editour an agu uno bono idèio de li tourna-bouta à l’ounour dóu mounde.


P. Berengier


“Mémoires de pauvres”, ed. Garae Hesiode, 576 p., 22 éurò.

576 PAGES, ILLUSTRE - FORMAT 15 x 22 cm - BILINGUE FRANÇAIS/Langues d'Oc


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jeudi 9 septembre 2010

S.-A. Peyre : FELICITACIOUN AU MESTRE FREDERI MISTRAL

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Mistral n'avait que la poésie... il n'était pas un conducteur de peuple, pas même un organisateur.
(S.-A. Peyre,
Essai sur Frédéric Mistral, p. 157.)


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FELICITACIOUN AU MESTRE FREDERI MISTRAL


Felibre prouvençau aprene 'mé plesi
Qu'aves lou pris Nobel: poudien pas miés chausi;
Cantaire de Vincent, cantaire de Miréio,
De soun paire Ramoun é de Tavèn la viéio,
De Nerto, Calendau, dou Rose majestous,
De la Prouvènço enfin. Grand ome voulountous,
Quand anavo péri la bello parladuro,
Libre é fier sias vengu. La lengo encaro duro,
Quau l'a sauvado? Es vous. La liro a trefouli
E souto vòsti det li vers sount espeli,
Avès canta l'amour, la joio, la jouvenço,
Canta tout ço qu'es bèu sous lou cèu de Prouvenço,
Per fissa lou parla di brave 'mé di fort,
O mestre saberu, avès fa lou Tresor,
Founda dins la cieuta di fiho tant poulido
L'ideau Muséon, qu'aqui soun reunido
Li relicle d'antan dou païs dou soulèu
E qu'avès proupousa de l'agrandi bèn lèu.
O felibre immourtau, pèr voste grand merite
Avès gagna lou pris é vous n'en felicite.


(12-12-04.)



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mardi 7 septembre 2010

Jean Lafitte : Sur le -on des 6èmes personnes verbales en provençal

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Jean Lafitte


16 aout 2010
Complété les 22 et 25 aout



Sur le -on des 6èmes personnes verbales en provençal

Au début de novembre dernier, tirant les conséquences de la déclaration d’un porte-parole de M. Frédéric Mitterrand selon lequel la mention des langues régionales dans la Constitution vaut plus qu’une loi, j’ai rédigé une plaquette exposant le « Statut officiel des langues régionales » tel qu’il découle des textes en vigueur. Et voulant être concret, j’y ai ajouté les conséquences pratiques pour le gascon, cela m’était facile, et même une ébauche de ce que j’entrevoyais pour le provençal, qui n’est pas mon domaine !

Sur la graphie, j’ai donc été amené à confronter au dispositif légal celle qu’on dit « mistralienne » et celle que préconisent les occitanistes. Au plan pratique, j’ai présenté en Annexe un extrait de la prière de Mirèio aux Saintes Maries, telle que l’a publiée Mistral, avec en vis-à-vis sa transcription occitane mise sur Internet par le Centre régional de docu­mentation pédagogique (C.R.D.P.) de Montpellier. En voici une strophe :

Mistral

E volon qu’amosse
Aquéu fiò nourri
Que vòu pas mouri !
E volon que trosse
L’amelié flouri !


CRDPMontpellier

E vòlon qu’amòrce
Aqueu fuòc norrit
Que vòu pas morir !
E vòlon que tròce
L ’ametlièr florit !

Or dans mon commentaire, tout en admettant qu’on peut, avec un peu d’entrainement, prononcer [u] ce qui est noté o, plus difficilement ó que l’on risque de confondre avec ò prononcé [o] ou [ɔ], j’ai écrit « Mais il sera impossible de lire comme il se doit ['volon] ce qui est écrit vòlon, que la norme de lecture fait dire ['volun]. »
Mes amis Provençaux ont aussitôt réagi : la prononciation provençale est bien ['volun], et non ['volon] comme je l’imaginais.
Je ne pouvais évidemment les contredire, mais je n’arrivais pas à comprendre cette exception apparemment unique dans le système mistralien, pour qui o se dit [o] et qui note ou ce qui s’entend [u]. J’ai donc supposé que la prononciation avait évolué depuis Mistral ou que le rhodanien, au moins du temps de Mistral, se distinguait du reste du provençal.
Mes amis n’ont pu me renseigner sur ce point historique. L’un m’a confirmé que dans les environs d’Avignon, les anciens « qui parlent en réalité le vieux provençal, disent naturelle­ment “oun” et non “on” à la 3ème personne du pluriel des verbes » ; mais aucun de ces « anciens » n’a pu connaitre Mistral. Un autre a avancé cette explication : « la graphie -on est un moyen de distinguer le [un] atone du [un] accentué : “Canton au cantoun” ».
C’est astucieux, pas impossible, mais se heurte pour moi à une objection majeure : je n’ai trouvé, ni personne ne m’a montré, un texte de Mistral signalant cette graphie exceptionnelle du son [u] par un o et la justifiant par cette affaire d’accent tonique.

Voici en tout cas ce que j’ai trouvé sous la plume de Mistral ; c’est au préambule de la lettre O du Trésor dóu Felibrige, ouvrage soigné s’il en est :
« On final, terminaison de la 3e personne du pluriel des verbes : parlon, ils parlent, dison, ils disent, cantèron, ils chantèrent. Les Languedociens prononcent pàrlou, dìsou, cantèrou, et les Gascons et Aquitains pàrlen, dìsen, cantèren.
« On, intonation qui devient oun en Gascogne : front, frount, pont, pount, respondre, respoune, bon, boun. »

Ces deux alinéas consécutifs permettent les constatations suivantes :
– Mistral ne se préoccupe pas du tout de l’accent tonique ; tous les exemples de la première série sont paroxytons, mais la voyelle tonique des parlon et dison provençaux ne porte aucune marque, alors qu’elle porte un accent aigu dans les pàrlou et dìsou langue­dociens et dans les pàrlen et dìsen gascons.
– Liant l’écrit à l’oral, Mistral ne donne aucun exemple d’un graphème (lettre simple ou groupe de lettres) qui puisse correspondre à des prononciations différentes : le front provençal ne peut être lu [un] par un Gascon, il l’écrit donc frount en gascon. De même, il ne conçoit pas qu’on puisse dire au Languedocien d’écrire parlon et de prononcer ['parlu] : il écrit pàrlou en languedocien.

Considèrons maintenant, à titre d’exemple, la conjugaison de ama au présent de l’indicatif telle que la donne Mistral :

Prov. ame, ames, amo, aman, amas, amon.
Mars. àimi, aimes, aimo, eiman, eimas ou eimès (a. d.), aimon.
Lang. aime, aimes, aimo, aiman, aimas, aimon.
Gasc. àimi, aimos, aimo, aimam, aimats, aimon.
Lim. aime, èima, aimo, aimen, eima, àimen ou àimou.

Comment pourrait-on soutenir que, sans en souffler mot, il ait voulu donner à ses -on une valeur différente selon qu’ils sont provençal et marseillais ou languedocien et gascon, alors qu’il prend soin de noter par -ou la finale limousine qu’il sait différente ?

À l’entrée Èstre, j’ai même trouvé une occurrence de 6e personne en -oun posttonique, localisée en Béarn : houroun, variante de estoun (oxyton) et houn, ils furent. Certes, je me demande où Mistral a pu dénicher cette forme, ignorée de la Grammaire béarnaise de Lespy (1858 et 1880) et que je n’ai jamais rencontrée jusqu’ici. Mais sa forme médiévale foron est attestée hors du Béarn, dans un acte du cartulaire de Bigorre des environs de 1200 et un autre du Second cartulaire blanc de Ste-Marie d’Auch, de 1258, tous deux publiés par Luchaire (Recueil de textes de l’ancien gascon, 1881, pp. 16 et 109). Raynouard la donne aussi comme « roman », avec ses équivalents espagnol fueron et italien furon, tous paroxytons évidemment, comme le latin fuerunt (Grammaire comparée des langues de l’Europe latine, 1821, p. 215).



L’explication par le besoin de différencier oxytons en -oun et paroxytons en -on ne tient donc pas, et il fallait s’y attendre, puisque Mistral ne s’en est pas préoccupé.
Je n’ai cependant pas arrêté là mes recherches, car si Mistral a donné son nom à la graphie moderne du provençal par le lustre que lui ont apporté ses œuvres littéraires et le Tresor, le père du système est, pour l’essentiel, son ainé Roumanille.
J’ai été grandement aidé par le précieux ouvrage de René Dumas, Les années de formation de Joseph Roumanille (1818-1848), 1969. Traitant largement de l’orthographe (pp. 237-261), il fait l’état des lieux avant Li Margarideto, publiées par Roumanille en 1847, puis montre l’apport de ce recueil à la définition de l’orthographe moderne du provençal.
Avant, le témoin est le Bouil-abaïsso, journal de Joseph Désanat qui accueille tous les écrivains provençaux et languedociens, sans aucun contrôle de leurs graphies. Sans s’arrêter aux nombreuses fautes imputables à l’imprimeur, R. Dumas réussit à dégager les traits les plus caractéristiques de ces graphies d’auteurs ; sur notre sujet :
– hormis Roumanille : « Pour les désinences en oun de la 3e pers. plur. du prés. de l’indic., du passé simple et du subj. prés. et imp., elles ajoutent un t ou l’écartent : douarmoun (t), soun (t), cantavoun (t), vengueroun (t), vagoun (t), diguessoun (t). » (p. 242) ; pour le vérifier, il suffit de parcourir la préface donnée aux Margarideto par l’ami Camille Raybaud et les citations d’auteurs divers que Roumanille a glissées dans le recueil ;
– Roumanille dans la première série du Bouil-abaïsso (à partir de 1841) : « Désinence oun. Roumanille l’écrit à peu près constamment ount : volunt [sic, probablement pour volount], drubiguerount. Dans le numéro du 6-5-1841, il opte pour la forme simple oun : cercoun, amoun (avec une exception pour sount) ; mais dès le numéro suivant, il revient à ount. » (p. 245);
– Roumanille dans la seconde série du Bouil-abaïsso (à partir de 1844) : « Désinences verbales. Roumanille s’oriente vers une simplification générale. […] la finale ien n’a plus de t et oun non plus. » (p. 248).
Viennent alors Li Margarideto : « Désinences verbales. […] b) La finale oun est désormais écrite on : soufrisson, vagon, pousson, diguèron (91).
Note 91 : « Roumanille se rallie à cette graphie entre mars et mai 1846, ainsi que le montre la comparaison entre le texte de A la Pologno, daté du 8 mars 1846 (Album, p. 142, publié dans la Gazette de Vaucluse) où nous lisons encore cavavoun et disoun, et celui de L’ange di flour, daté de mai 1846 (Album, p. 112) où nous lisons flourisson, espelisson, etc. (mais également sount). » (p. 258).

Et à la note 90 qui précède, R. Dumas nous a livré un texte capital de Roumanille lui-même sur l’orthographe ; c’est une note manuscrite datée d’Avignon, 15 octobre 1847, et insérée dans l’exemplaire des Margarideto que Roumanille donna au Musée Calvet :
« Deux mots à l’excellent M. Requien.
« L’orthographe provençale que j’ai adoptée n’est certes pas irréprochable. Les savants y trouveront des monstruosités… […] 4° Les diphtongues au, èu, éu, óu… pour aou, èou, oou (ainsi que les écrivent les poètes modernes, à tort, selon moi) m’ont été données par le bon sens, par le latin, par le grec… par les vieux troubadours et les vieux manuscrits romano-provençaux. En cela, je n’ai pas innové je n’ai fait que rétablir ce que les modernes ont détruit. Il en est à peu près de même de ca[n]tavon au lieu de cantavoun (Saboly est ici de mon avis), etc. […] »

Ce thème, Roumanille devait le reprendre longuement dans sa Dissertation sur l’ortho­graphe provençale placée en tête de son troisième recueil, La part dau Bon Dieu, 1853 (pp. V-LXVIII). Il répondait à deux articles de la Gazette du Midi dans lesquels l’écrivain marseillais Casimir-Gabriel Bousquet (1820-1862) lui reprochait d’avoir changé la langue des poètes réunis dans le second recueil Li Prouvençalo (1852) en leur appliquant ses normes orthographiques. C’est à ma connaissance l’exposé le plus fourni sur l’orthographe qu’allait adopter le Félibrige. Il aborde quatre fois notre sujet, soit directement, soit incidemment :
p. XV, note : « M. Castil-Blaze, dont la compétence en gai-saber ne saurait être contestée, […] a aussi adopté, pour les troisièmes personnes du pluriel des verbes, les formes avon, èron, etc. que nous avons rétablies: « Celèbron soun ôuvrié divin. Touti respondon… etc. Touti me chamon, touti me volon… ».

pp. LXV-LXVII : traitant de la suppression du -t final étymologique lorsqu’il n’est plus prononcé, il la justifie en citant des textes anciens échelonnés « depuis l’an 850 environ jusqu’à Saboly, et depuis Saboly jusqu’à Jasmin », exemples qu’il a puisés
« d’abord dans la grammaire romane de M. Raynouard, et ensuite dans les poésies qu’il a recueillies » :

Ins el jardi ou chanton li auzel. (Ms. r.) — Que li tarzan no s mesclon ab l’arden-ts. (Ozils de Cadartz.) — Que crucifixeron Jusieu. (Planch de Sant Estève.)
Pauc foron aquilh que la ley ben garderon,
E moti foron aquilh que la trespasseron. (Poésies des Vaudois.)
Or sachon ben miey hom etc. etc. (Richard Ier.)
Car sept mezes de l’an
Passon justamen-t aro. (La Bellaudière.)
De blat tous lous campets daurejon. (D’Astros.)
E revengut lou jour, lous angis la pourtavon. (B. de la Burle.)
E demandon pertout l’houstalet benazit…
Qualqu’un a declarat que porton per estrenos…
Elis parlon… etc. (P. Goudelin.)
Nostei pastresso
Boulegon lei man. (Saboly.)
Se trouveron tous nus…
Intreron tous confus… (Id.)
Lous ayres que brounzisson,
La terro que trambolo et lous rocs que s’esquisson… (Jasmin.)

« M. Moquin-Tandon, dans son Carya magalonensis, n’a pas écrit autrement ces troisiè­mes personnes du pluriel. On trouve dans ce livre : Murmuravon, eron, manjon, ajusteron, etc.
« Il est à remarquer que les Espagnols écrivent ces troisièmes personnes comme les vieux troubadours, comme Saboly, comme Jasmin, […] : Ellos hubieron; ellos fueron; ellos ameron; ellos cosieron, etc. »
À mon tour de faire remarquer qu’au moins pour le Gascon d’Astros et les Languedociens Goudelin, Jasmin et Moquin-Tandon, tous ces -on représentent des prononciations en [on] (n dental) qui existent toujours, tout comme en espagnol. Et je cite au passage cette affirmation catégorique de notre auteur (p. XXIV) : « la prononciation est, dans notre langue, le guide de l’orthographe, comme dans l’espagnol et dans l’italien. »

pp. LVIII-LIX : « On pourra nous dire que, pour être conséquents à notre système, nous devrions aussi accentuer la pénultième des troisièmes personnes du pluriel des verbes, comme dison, caminavon, afin [LIX] qu’on n’appuie pas sur la terminaison on. Nous répondrons que, de tout temps, il a été admis en Provence que cette terminaison des verbes est muette ; et nous ne craignons pas qu’on confonde ces troisièmes personnes avec les mots terminés en on, parce que ces derniers sont presque tous des monosyllabes, tels que bon, pont, som, etc. »
Pas plus qu’aux pages citées ci-dessus, Roumanille ne laisse supposer que, hormis l’inten­sité de la voix, les -on verbaux aient une sonorité différente de ceux de bon et pont.

pp. LXV-LXVII : Roumanille arrive à la conclusion de sa « Dissertation » ; il me parait particulièrement utile d’en citer le début, même s’il déborde notre problème :
« La réforme à laquelle nous travaillons sérieusement, est basée sur trois points princi­paux : 1° approprier l’orthographe provençale moderne aux modifications que le temps a fait subir à notre langue ; car les changements arrivés dans la prononciation obligent toujours d’en faire dans l’orthographe.
« 2° Simplifier cette orthographe par la restauration de certaines formes usitées chez les vieux troubadours, et par la suppression de bien des lettres parasites ;
« 3° La compléter enfin par un système particulier d’accentuation. »
Puis, résumant l’ensemble, il écrit : « …mes amis, […] adoptez pareillement les formes avon, èron, etc. des troisièmes personnes plurielles des verbes, dont on trouve mille et mille exemples dans les plus vieux et les meilleurs auteurs. »
J’ajoute que Mistral ne dit rien de ces 6èmes personnes dans sa célèbre lettre 28 décembre 1854 qui expose à J-B. Gaut « les règles principales de la Loi » orthographique du Félibrige.

De tout cela, je tire les conclusions suivantes :
– incontestablement, dans la Provence des années 1840 comme aujourd’hui, nous n’avons aucun témoignage de prononciation de ces finales verbales en [on] ; ceux qui les écrivaient alors les notaient par oun, voire ount par manie étymologisante ;
– leur notation par -on est une initiative personnelle de Roumanille du printemps 1846, appuyée sur ce qu’il avait vu dans les écrits anciens ;
– pas plus chez lui que chez Mistral, il n’y a pas le moindre indice qu’ils aient voulu faire prononcer ce -on autrement que [on], prononciation largement attestée hors de Provence, comme en témoignent la conjugaison de ama rapportée plus haut.


Et j’apporte une réflexion critique :

J’essaie d’abord d’expliquer la démarche de Roumanille : suivant le conseil pressant de « prendre pour modèles “les documents historiques” » que lui a adressé C.-G. Bousquet, il a consulté « les vieux troubadours et les vieux manuscrits romano-provençaux », selon ses propres dires rapportés plus haut. Certes, il en a parfois tiré de fausses conclusions, comme en constatant que les troubadours omettaient l’s du pluriel, alors que la plupart des exemples présentés sont des cas sujets, qui en étaient dépourvus; mais il en a retenu que la langue avait changé au cours des siècles. Cependant, il croit que « pour écrire tout, [les troubadours] écrivaient tot » (p. XVII, note), et comme on l’écrira tant et plus par la suite, il doit penser que c’est l’influence du français qui a conduit à la graphie tout; sans doute n’a-t-il pas rencontré des textes anciens qui notaient déjà des ou de son temps à côté de o devenus ou depuis, comme nous le verrons bientôt. En tout cas, son insistance à citer Saboly, dont il a publié les Noëls l’année précédente, laisse supposer que tout en retrouvant chez lui à peu près tous les ou valant [u] du provençal du XIXe s., il a été frappé par les 6èmes personnes en -on; il en a conclu que leur passage à -oun était récent, et qu’il fallait retrouver l’ancienne prononciation.

J’ai voulu m’assurer de cette évolution d’après des auteurs du XVIe au XVIIIe s., en y ajoutant Victor Gelu publié de son vivant.
J’ai examiné le passage du -a féminin posttonique à -o, du o latin à ou, le traitement des 6èmes personnes des verbes et enfin celui du on latin, interne aussi bien que final, en consi­dérant que les auteurs ont écrit naturellement ces sons, pour être lus par des gens habitués à lire du français. Quant à la nature phonétique exacte de ces sons, on ne peut en discuter, mais l’écrit témoigne de la conscience que les auteurs avaient de ces sons ; cela explique les hésitations en périodes de transition ; par exemple chez Ruffi.
Enfin, pour éviter les corrections et erreurs dues aux éditeurs, j’ai fait cette recherche dans des éditions originales, ou faites tardivement par des philologues, d’après les manuscrits :

Bellaud de la Bellaudière, d’après André Berry, Anthologie de la poésie occitane, 1961, basé sur l’édition de 1595 : semano – lou, pouleto – venon – montagnos, pron, Avignon.
Pierre Paul (édition 1595, pp. 30-31) calo – lou, soufflo – atrouberon – Monsur, Conssou, leton, canton.
Robert Ruffi (éd. Octave Teissier d’après le manuscrit du XVIe s., 1894 ; Ode à Pierre Paul, pp. 25-31) : allegavo – lou, lauzour, provensau/prouvensau – debation, tenion, defendion (toniques) ; fesson (posttonique) – Autoun/auton, enfantoun, besson, mondo.
Saboly – À défaut d’édtion originale, nous disposons de la très sérieuse édition de 1856, basée sur la première publiée du vivant de Saboly ; elle comporte même en tête six noëls achevés et sept fragments, tous inédits, provenant d’un manuscrit de Saboly daté de 1655 et découvert depuis peu à la Bibliothèque de Carpentras, où j’ai relevé : coulino – lou loup – dison, troubavon – counsoula, cartoun.
Jean Michel, de Nîmes, quoique compté comme poète languedocien, d’après Berry basé sur l’ édition de 1700 : Fieiro – lou, soulet – prenon, metton – amoun (en haut) ; mais canon, renon, Consouls, garçon.
Toussaint Gros (1ère édition 1734) : Prouvenço – lou, Bouqueto – agoun, proucuroun, mandavoun – Monsignour/Mounsignour, liçoun, dount, coundanas.
Victor Gelu (Chansons provençales, éd. 1856, pp. 42-43) : tirassiero – lou, nouste – aclapoun, Fabriquoun – pouncho, carboun.
Ce sont surtout des Marseillais, mais peu importe, il est clair qu’à la fin du XVIe s. la finale féminine est passée à [o], alors qu’elle reste [a] en Béarn, ou du moins dans l’Est (car à l’Ouest, elle est en [ǝ] depuis au moins le XIIIe s.), selon le témoignage explicite d’Arnaut de Salette (1583). Les on latins sont encore en [on], mais Ruffi en note déjà par oun tandis que plus d’un siècle après, Gros en conserve quelques uns en on.

En revanche, au XVIe s., les 6èmes personnes des verbes sont en -on, donc [on], qu’elles aient été en –ant, -ent ou -unt en latin. Les -avon de Saboly s’inscrivent dans cette ligne.
Mais dès 1734, dans les poésies de Toussaint Gros, ce on généralisé depuis plus d’un siècle est passé massivement à -oun.
Certes, en un temps où l’on identifie encore le son élémentaire à la lettre – ou aux lettres –qui le représente(nt), il peut être difficile de distinguer les changements de lettres des change­ments de prononciation. Ainsi, l’un des “chevaux de bataille” de Roumanille est l’écriture des diphtongues en [] qu’il veut noter au, eu, òu au lieu de aou, eou, óou : seul le signe est affecté, pas la prononciation. Mais dans notre affaire, c’est le changement de prononciation qu’il refuse comme étant le fait des modernes, c’est une “épuration” linguistique, qui va de pair avec le rejet des gallicismes ; car lou reste lo, flourisson garde le premier ou etc.
C’est d’autant plus étonnant qu’il rejette par exemple le graphème lh parce que la pronon­ciation dans son dialecte a depuis longtemps fait disparaitre la mouillure (p. LXI). Mais ici, Roumanille veut revenir de quelque 150 ans en arrière, en contredisant son premier principe, d’« approprier l’orthographe provençale moderne aux modifications que le temps a fait subir à notre langue […] » (cf. plus haut).

J’en viens maintenant à critiquer cette “épuration” ; non pour son principe — encore qu’il ne soit pas facile de changer les habitudes de prononciation ! — , mais parce qu’elle va trop loin. En effet, ce -oun a deux sources bien différentes :
– -ant latin posttonique (cantant, cantabant), que la graphie occitane note par -an, aboutit à [on] dans une grande partie du domaine ; la graphie cantavon de Saboly montre qu’il en était ainsi en Provence au XVIIe s. Par la suite, ce [on] est passé à [un], phénomène qu’on retrouve ailleurs ; ainsi, le [a] latin posttonique s’entend [u] à la pointe du Médoc, et le gascon prononce en [u] les mots espagnols en -o posttonique : loco > lòcou ;– -unt latin posttonique (dicunt, fuerunt), que la graphe occitane note par -on, aboutit à [on] médiéval, suivant une tendance déjà présente en latin (cf. cum + tributio > contributio) et que le français connait bien : maximum se prononce [maksi'mom] et voluntas latin donne volonté ; mais aussi fuerunt latin donne furon en italien et fueron en espagnol.
Les lois de l’analogie ont étendu et croisé ces finales devenues oun pour aboutir aux prononciations actuelles de provençal. Mais s’il pouvait être justifié de ramener à [on] le [un] issu de -ant latin, mettant en accord la 6ème personne canton ['kanton] avec la 3ème (canto ['kanto]) et avec un vaste ensemble d’oc, ça l’est beaucoup moins pour celui issu de -unt latin, car le [un] moderne marque tout simplement un retour aux sources : ‘volunt’ > voloun, ‘dicunt’ > disoun, de règle en languedocien.

Finalement, avec amon, cantavon, volon, dison prononcés en [un], les Mistraliens du XXIe s. gardent la lettre de Mistral — et c’est bien de lettre qu’il s’agit ! —, mais sacrifient l’esprit qui voulait un changement de prononciation, et consacrent une étonnante exception dans les règles d’écriture et de lecture du système.
Le leur dire ne manque pas de les choquer : quand on a appris et éventuellement enseigné depuis toujours que le -on des 6èmes personnes se prononce [un] faible, ce n’est pas facile d’admettre qu’on lit Mistral à contre sens depuis des décennies. Un peu comme quand les papiers de famille (les écrits de Roumanille) et les chaines de l’ADN (les listes de conjugai­sons du Tresor), révèlent la filiation légitime de celui que l’on considérait comme un bâtard (l’exception dans les règles de lecture).
Je leur livre donc en toute amitié ces constatations, analyses et réflexions, et puisque ma “postface” m’a fait citer Jules Ronjat, je m’en remets à son autorité en rappelant la « Règlo generalo » qu’il plaçait en tête de L’Ourtougràfi Prouvençalo (2nde éd. par la Mantenenço de Prouvènço, 1937, disponible en .pdf sur C.I.E.L. d’Oc) :
1. Escrivès coume parlas…



EN GUISE DE POSTFACE

Sitôt achevée le 16 aout, j’ai envoyé cette étude à mes amis, dont deux m’ont fait part de leurs observations ; j’ai donc tâché d’y répondre en revoyant quelques phrases et surtout en apportant des compléments après étude d’auteurs anciens ; d’où un nouvel envoi le 22.
Mais y repensant par la suite, le mot « historique » m’est venu à l’idée, me suggérant que Ronjat avait sans doute déjà dit tout cela dans sa Grammaire istorique des parlers proven­çaux modernes (1930-1941). De fait, il y consacre le § 560 (Tome III, p. 159) ; c’est plutôt bref, mais confirme mes conclusions ; je vais donc le citer, mais pour le rendre plus lisible, je développe ses abréviations et rétablis l’orthographe normale du français :
« Le vpr [vieux provençal lato sensu, donc la « langue d’oc » ancienne] semble avoir eu d’abord respectivement -an, -en, -on pour le latin -ant, -ent, -unt […], mais de bonne heure des actions analogiques et des emprunts de conjugaison à conjugaison ont amené des simplifications [exemples anciens, dont aucun ne concerne la Provence] — phénomènes continués de nos jours [régions autres que la Provence] ; d’une manière générale les répartitions dialectales ont ici peu varié depuis le moyen âge (v. P. Meyer, Romania 1880, p. 192-215). En prov. [provençal stricto sensu, parlers de la Provence proprement dite, y compris la marche nîmoise], -on est employé dans toutes les conjugaisons par extension de la 1ère, où il continue phonétiquement -an qu’on retrouve chez Boysset [Arlésien, 1374-1414] et dans Tersin [roman en prose du XVe s.]. D’autres parlers ont au contraire étendu à toutes les conjugaisons -oun <>